Il vino italiano non ha nessuna crisi. Eppure, il vino italiano non sta affatto bene. La dicotomia è emersa durante l’incontro per le Previsioni Vendemmiali dello scorso 10 settembre. Tutto festoso il ministro Lollobrigida: “numeri alla mano, non si può parlare di crisi del vino. Veniamo da un 2024 da record nell’export di vino con 8 miliardi di euro“.
Vero, ma va analizzato il contesto: le richieste erano drogate dall’arrivo del ciclone Trump, col suo bastimento carico carico di dazi. Difatti le stime attuali attribuiscono all’export del vino italiano un segno negativo. Magari il ministro gioiva anche dei 47,4 milioni di ettolitri previsti dalla vendemmia 2025, che ci pongono per un altro anno come principale produttore di vino al mondo, addirittura con 10 milioni di ettolitri in più della Francia. L’occasione era troppo ghiotta per non dichiarare che oramai “non abbiamo più niente da imparare dalla Francia e da nessuno“.
Italia principale produttore di vino al mondo: un primato negativo
In quel momento, se si fosse voltato, il raggiante ministro avrebbe incrociato gli sguardi sicuramente cupi del presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella, del presidente di Unione Italiana Vini Lamberto Frescobaldi e degli altri partecipanti all’incontro; persone consapevoli che il primato produttivo è tutt’altro che positivo: nelle cantine italiane sono ancora stoccati circa 40 milioni di ettolitri, tutto vino invenduto e che, con i dazi doganali e il calo costante del suo consumo, non sembra destinato a repentina distribuzione. Mi dispiace per il ministro, ma i francesi anche stavolta ci hanno visto lungo e hanno cominciato prima di noi a produrre meno vino, ritoccando i limiti di resa e passando anche attraverso la triste pratica dell’estirpare le viti (27500 ettari di vigneti rimossi). Insomma, alla fine il ministro Lollobrigida era l’unico di buon umore a quel tavolo.
Il Manifesto per il vino italiano di Riccardo Cotarella
Il clima plumbeo era già stato paventato da Riccardo Cotarella nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 6 settembre scorso, commentando la situazione poco rosea del vino italiano e suggerendo possibili vie da percorrere per risolvere la crisi. A tale scopo, il presidente di Assoenologi ha esposto il suo Manifesto per il vino italiano, un documento chiaramente market-oriented, articolato in dieci punti ritenuti risolutori del momento critico che il vino italiano sta passando. Elencheremo prima i dieci punti del manifesto, poi li commenteremo uno ad uno.
- Equilibrio tra produzione e mercato
- Consapevolezza imprenditoriale e analisi preventiva
- Collaborazione per un accesso equilibrato al vino
- Ridisegnare la geografia viticola
- Innovazione di prodotto
- Sostenibilità ambientale ed economica
- Formazione e competenze
- Coesione della filiera e promozione coordinata
- Tutela della tipicità
- Presidio dei mercati emergenti
Perché produrre troppo vino è un problema
Il punto d’esordio del manifesto è quello più potente, volto a captare l’attenzione da subito: in Italia produciamo troppo vino. Mobbasta! Cito: “Diventa quindi indispensabile avviare un percorso di progressiva riduzione delle rese per ettaro, con l’auspicio di raggiungere un equilibrio che consenta di produrre quanto il mercato effettivamente richiede“. Un coro di “alleluja” saluta la frase: sono anni che si va dicendo che sì, bello essere il primo paese produttore di vino al mondo, ma se la maggior parte del vino venduto è roba di scarsissimo valore organolettico non è che ci sia granché di cui vantarsi. Badate bene, ridurre le rese non è la formula magica che possa rendere il Tavernello un Sassicaia (due nomi puramente esemplificativi). Per produrre un vino di alta qualità ci vuole un territorio vocato, l’uva adatta e un abile produttore. Tuttavia raccogliere qualche grappolo in meno per pianta può essere un inizio per contenere la produzione.
Il secondo punto è una grande operazione simpatia: vuoi aprire una cantina e metterti a produrre vino? Non farlo. Non sei in grado. Pur non essendo questa una parafrasi letterale, il concetto è lampante: per Cotarella, se vuoi produrre e vendere vino devi affidarti a “professionisti qualificati, che possano anche condurre analisi di mercato e fornire indicazioni chiare su quali vini, in quel determinato territorio, abbiano reali possibilità di successo“. Il punto appare come un bel tuffo nel passato, quando si piantavano ettari ed ettari di syrah in Sicilia o di merlot nel Lazio perché il mercato gradiva, con tanti saluti alla tradizione.
I ricarichi al ristorante sono respingenti per i clienti
Il terzo parla direttamente ai ristoratori e dice loro esplicitamente di evitare ricarichi pazzeschi sui vini. Chiaramente, ci sono dei motivi che giustificano il maggior prezzo del vino al ristorante rispetto l’enoteca, come la gestione della cantina, i macchinari per mantenere i vini alla giuste temperature di conservazione e di servizio, la cristalleria specifica, il sommelier che serve il vino. Però, in tutta sincerità, dell’elenco appena stilato molti ristoranti vantano appena un frigorifero e qualche calice; un po’ poco per proporre dei vini al doppio del loro prezzo d’acquisto (se non di più). Certo che la crisi del vino non passa attraverso i ristoranti, ma è pur vero che un prezzo più affrontabile eviterebbe lo scoraggiamento del consumatore. Prezzo affrontabile in primis anche dal ristoratore, si capisce.
Cosa significa “ridisegnare la geografia viticola”
Anche il quarto punto è piuttosto esplicito: se un territorio produce un vino che non riscuote il successo del mercato, vanno ridotte le viti “in favore di altre colture più redditizie“. Ma ve lo immaginate uno storytelling del genere: “la tenuta disponeva di 10 ettari. Dieci anni fa li riducemmo a 4, rimpiazzando le viti con frumento e alberi di pesche, per via di una flessione del mercato. Se non che negli ultimi anni abbiamo notato una forte crescita della richiesta del nostro vino, per cui oggi rimuoveremo 3 ettari di alberi di pesche e metteremo a dimora le barbatelle che, fra quattro-cinque anni, ci permetteranno di far fronte alle pressanti richieste dei clienti”. Magari tornerebbero i noccioleti nelle Langhe, chissà.
Con il quinto punto si punta a “sperimentare nuove tipologie, come vini a gradazione contenuta, per intercettare consumatori attenti ai nuovi stili di vita“. Cosa non facile, dopo averli per lungo tempo bollati come salutisti (e non intendendo far loro un complimento). Ma quantomeno è un piccolo passo verso tutti coloro che non prediligono il consumo di più alcol del dovuto ma chiedono comunque prodotti di qualità. A tale proposito, sarebbe stato il momento giusto per calare giù il carico e proporre l’inserimento in qualche disciplinare IGT o DOC della possibilità di produrre anche vini dealcolati a denominazione. E invece ancora niente. Aspetteremo.
I punti sei e sette propongono di “ridurre l’impatto ecologico in ogni fase della filiera; garantire redditi equi e stabili a chi lavora in vigna e in cantina; investire nella preparazione di nuove generazioni di professionisti: enologi, agronomi, tecnici di cantina, addetti alla promozione“. Queste sarebbero cose normali, già auspicabili, che non dovrebbero essere esposte in un manifesto per salvare il vino italiano dalla crisi. Dovrebbero essere già in atto e in costante miglioramento, soprattutto riguardo alle condizioni di sicurezza e di salute per chi lavora in vigna, argomento mai nominato nel documento. Nè è dato sapere quali siano le stravaganze produttive “inutili e dannose” citate nel manifesto. Sospettiamo che, alla fine, lo scopo dei due punti fosse far arrivare il manifesto alla cifra tonda.
Sospetto condiviso anche verso i punti otto e nove. Soprattutto riguardo l’ottavo punto, suona piuttosto strana la necessità di una richiesta specifica per far collaborare gli ingranaggi della macchina enologica italiana. Il vino finora è stato sempre rappresentato come una splendida isola felice dagli addetti ai lavori, e le critiche mosse al comparto sono tuttora molto rare e circostanziate, cosa che non impedisce di bollarle puntualmente come ‘nemiche del vino’. Ma anche il punto nove, la tutela della tipicità, ha il suo problema: a ben guardare, cozza potentemente con il punto numero due che suggerisce, a chi voglia aprire una cantina ex novo, di valorizzare non il territorio ma di produrre il vino che possa avere più successo. Dite a chi è di Verduno di estirpare pelaverga per piantare nebbiolo e poi andategli a parlare della tutela della tipicità.
L’ultimo punto è piuttosto importante: è vero che il vino italiano si è adagiato sui soliti mercati. Purtroppo le shakerate politiche degli ultimi anni obbligano all’esplorazione di ogni singolo Paese del pianeta Terra in cerca di nuovi mercati. Il vino italiano ha davvero secoli e secoli di storia da raccontare, è un’arma piuttosto potente. Se verrà posto sul piano delle altre bevande, e non al di sopra per una supposta investitura divina, potrà farsi strada presso ogni cultura come già fa da millenni.