L’aggressione a Giuseppe Luciano Aieta di Cà du Ferrà e l’omofobia della piccola comunità agricola

L'aggressione a Giuseppe Luciano Aieta di Cà du Ferrà ci conduce a una riflessione sul difficile rapporto con omofobia e maschilismo delle piccole comunità agricole. Un tema che affrontiamo anche con Roberta Bruno di Gringhigna e Silvia Pragliola e Lisa Gentili, proprietarie di Poggio Bbaranèllo.

L’aggressione a Giuseppe Luciano Aieta di Cà du Ferrà e l’omofobia della piccola comunità agricola

Lo scorso 17 agosto, scrollando sui social, mi sono imbattuto nella lettera aperta postata sui propri profili dall’azienda Cà du Ferrà, cantina ligure della Riviera di Levante. La lettera, indirizzata alla comunità di Bonassola, comune parte delle Cinque Terre, non lamentava una scarsa manutenzione del manto stradale o disagi riguardanti la pressione dell’acqua potabile.

Facciamo così, riporto direttamente l’esordio della lettera: “Cari concittadini, sono giorni difficili e dolorosi, nei quali la nostra vita è stata segnata da un episodio di inaudita violenza. Mio marito Giuseppe Luciano Aieta, mentre lavorava nella nostra vigna, è stato vittima di un’aggressione brutale: percosse, minacce con un’arma, immobilizzazione e un tentativo di violenza che mai avremmo immaginato di dover subire nella nostra terra, tra le nostre colline”. L’agghiacciante lettera prosegue con chiarezza: “Questa aggressione non è un episodio isolato. Da oltre un anno e mezzo, Giuseppe ed io viviamo in un clima pesante, fatto di pressioni, rancori, atti persecutori e tentativi di delegittimazione personale e professionale. Un clima che, pur senza nominare nessuno, è noto a molti e che oggi ha fatto da terreno fertile ad un gesto vile e intollerabile”.

Perché si tratta di omofobia

Ora, la logica vuole che bisogni aspettare gli esiti delle indagini per conoscere l’esecutore e gli eventuali moventi. Un semplice ragionamento però porta con facilità ad una conclusione chiara: l’aggressione ha in sé una componente omofoba. Magari l’innesco può anche derivare da motivazioni di natura caratteriale, lavorativa, catastale (posto sempre che minacce con arma e percosse non sono giustificabili in alcun modo), tuttavia l’azione, per come è stata descritta, non può che essere mossa o comunque accentuata dall’omofobia. Se Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta non fossero coniugi ma semplici soci in affari, magari oggi commenteremmo un danno alla vigna o in cantina, non l’atto violento ed orrendo da loro descritto.

Un esempio su tutti: Gianfranco Soldera, storico produttore di Montalcino, era celebre per il suo carattere difficile (e stiamo usando un vezzeggiativo: è riuscito a litigare con chiunque). Nel 2012 un suo ex dipendente aprì i rubinetti di dieci botti e mandò in fogna le annate dal 2007 al 2012: più di 600 ettolitri di vino per due milioni e mezzo di euro di valore. Soldera subì sì un danno ingente, ma non fu percosso e men che meno rischiò una violenza sessuale. Questo particolare non è casuale e, nell’analisi del gesto, non può essere tralasciato.

Va affrontata la realtà: in Italia ancora abbiamo uno spesso substrato di omofobia, maschilismo e razzismo su cui lavorare seriamente. A dirlo non sono io ma le notizie che leggiamo, i tanti commenti ‘illuminati’ sui social (anche alla stessa lettera aperta) e il contesto politico attuale. E se nelle grandi città esistono contesti tolleranti e zone safe (e vorrei che rifletteste un momento sull’odiosità di dover usare il termine ‘tolleranza’ riferendosi a modi di essere della persona che non comportano alcun rischio per la salute pubblica. Ma, evidentemente, servono ancora zone gay friendly, lasciando intendere che il resto della città potrebbe non esserlo. Riflettete per favore sull’odiosità di tutto questo), nei piccoli centri ancora potrebbe essere un problema vivere il proprio orientamento sessuale senza timori.

Vista in quest’ottica la lettera aperta di Zappi e Aieta, oltre ad un’esplicita richiesta di giustizia, manifesta un urgente bisogno di presa di consapevolezza da parte di tutta la comunità di Bonassola, un paesino composto da meno di 800 abitanti dove Zappi e Aieta hanno scelto di abitare: il clima pesante e un silenzio connivente ha fatto da terreno fertile per l’orrenda aggressione. Stiamo dicendo che gli abitanti di Bonassola o di altri paesi minuscoli sono omofobi, maschilisti o razzisti? No, ovviamente. Però è evidente come certe piccole realtà fatichino alquanto nell’accettare ciò che devia dall’abitudine, che siano due donne a gestire da sole un’azienda agricola o due uomini che passeggiano tenendosi per mano.

Sottolineiamo che Zappi e Aieta sono sì coniugi alla luce del sole, ma ciò non viene esibito per mero sfruttamento a fini di marketing (cosa che, seppure fosse stata, non avrebbe meritato alcun commento, figuriamoci un’aggressione). Ed è pure comprensibile: detto fra noi, alzi la mano chi è convinto che in Italia si riesca a vendere più vino se questo riporta in etichetta “prodotto da coppia gay”. Le persone gay non si dichiarano in etichetta prima di tutto perché è un qualcosa di non attinente al vino e, in secondo luogo, perché in Italia nel 2025 dichiarare che si ama una persona dello stesso sesso è ancora un atto di coraggio.

L’esempio di Grighigna

grighigna

Vi sfido a cercare in rete quante cantine italiane siano gestite da persone facenti parte della comunità LGBTQIA+. Troverete solo Gringhigna, una vigna dichiaratamente queer a Strevi, alto Monferrato. Ho contattato Roberta Bruno, la titolare, per chiederle come mai questa dichiarazione di intenti. “Nel 2022, quando decisi di fondare Gringhigna, vidi che non c’era alcuna rappresentanza LGBTQIA+ nel mondo del vino italiano. Però rappresentanti di questa comunità sono certamente presenti anche in questo mondo. Il mio obiettivo è stato allora manifestare l’essere queer in questo ambiente, per fare rete, affinché chiunque possa sentirsi accolto e rappresentato“.

Hai subito ostracismi, discriminazioni o minacce dai compaesani? “No, onestamente nessuno mi ha mai minacciato o insultato per il mio orientamento sessuale. Certo, in un contesto enologico e contadino ancora prettamente maschilista e piuttosto chiuso, desta stupore vedere una donna che lavora sul trattore. C’è più curiosità che aperta ostilità, ma ormai con i contadini ci salutiamo come si fa tra colleghi. So che comunque alle mie spalle il chiacchiericcio c’è, ma ho scelto di non farmi riferire nulla. Poi ci sono le shitstorm sui social“.

Ne hai ricevute tante? “Due sono state quelle più potenti, in corrispondenza degli articoli sulla mia vigna queer, anche messaggi privati. Ad esempio, uno dei messaggi che mi sono arrivati recitava «Almeno una volta vi bruciavano nei forni, ora vi fanno anche le interviste». Fortunatamente come comunità ci supportiamo per arginarle, ma ogni singolo messaggio fa male come una ferita. Sono stata anche accusata di ‘rainbow washing’, cioè sfruttare a fini di marketing il dichiararsi queer, ma sappiamo entrambi che venderei molto più vino se non riportassi in etichetta che siamo una vigna queer“.

Tu vivi a Strevi? “No, ho la vigna lì ma io abito a Torino, dove ho la mia famiglia e i miei amici. Un motivo aggiuntivo è che in una comunità così piccola e rurale, pur non avendo mai ricevuto minacce né avuto screzi con nessuno, non mi sento completamente al sicuro; mi sento più accolta e tranquilla nella grande città“.

Il tema della maggior sicurezza nella grande città è comune anche a Silvia Pragliola e Lisa Gentili, le proprietarie di Poggio Bbaranèllo, azienda vinicola di Montefiascone nella Tuscia viterbese. Ho chiesto a Silvia come mai abbiano scelto di restare a vivere a Roma. “La realtà del piccolo paese contadino non ci dava la serenità sufficiente. Soprattutto, con la nascita dei nostri due figli siamo diventate a tutti gli effetti una coppia omogenitoriale. L’obiettivo principale è quindi diventato tutelare i nostri figli e, senza voler fare di tutta l’erba un fascio, l’ambiente di Roma è molto più inclusivo per loro rispetto una realtà tuttora più chiusa come quella di Montefiascone“.

Voi avete avuto noie in quanto coppia omosessuale? “No, da quel punto di vista no. Ne abbiamo avute, e tante, in quanto donne e forestiere. Sembra che le persone si sentano autorizzate ad essere negligenti sul lavoro e molto più aggressive nelle dispute“. Un esempio? “Anni fa venne investito il nostro cane in vigna. Uno dei nostri collaboratori, all’epoca molto fidato, tentò di nascondere l’accaduto. Alle nostre insistite richieste di spiegazioni, lui e l’operaio al lavoro in vigna furono estremamente aggressivi, arrivando anche alle minacce. Ecco, sono convinta che tutte ciò non sarebbe accaduto se al posto nostro ci fosse stato un uomo. Se a questo sommi i diversi piccoli furti subiti, capirai che in paese noi ci relazioniamo con poche persone e solo in ambito professionale. La nostra cerchia sicura è a Roma“.