Perché il tappo a vite è migliore del tappo di sughero per il vino

Il futuro del vino passa dal tappo a vite e no, non è detto che un vino invecchi meglio con il sughero. I vantaggi del sigillo in metallo superano decisamente quelli della classica chiusura, nonostante le reticenze.

Perché il tappo a vite è migliore del tappo di sughero per il vino

Un giorno del 1903 il presidente della Michigan Savings Bank ricevette la visita di tale Horace Rackham, avvocato di un noto imprenditore dell’epoca. Costui chiese all’esperto economista se fosse una buona idea investire nelle azioni dell’impresa suo assistito. L’economista, il cui nome svanì nell’oblio, espose la sua sincera previsione: “il cavallo è qui per restare, l’automobile è solo una moda passeggera”. Rackham girò i tacchi e, buon per lui, fu di parere opposto: investì 5000 dollari nella Ford Motor Company (sì, il suo assistito era Henry Ford), rivendendole tempo dopo a 12,5 milioni di dollari.

Ora, spostiamoci in avanti di più di un secolo e pensiamo a tutti quelli che dichiarano come il tappo a vite non potrà mai essere il futuro del vino, millantando l’insostituibilità del sughero. Non sembra di essere tornati nella Michigan Savings Bank? Spesso si è sentito dire come solo il sughero consenta al vino di ‘respirare’, fornendo l’imprescindibile microssigenazione che, dicono, solo questo supporto possa dare.

A questa caratteristica i detrattori del tappo a vite hanno sempre opposto ‘mummificazione’ cui, dicono, andrebbe incontro un vino tappato con l’alluminio: lo chiudi con il tappo a vite e lui rimarrebbe immobile negli anni, senza il minimo accenno di evoluzione. Perfino nei corsi sommelier qualcuno ancora insegna che sì, il tappo a vite è un moderno supporto, economico e tecnologico, ma buono solo per i cheap wines; per i vini top di gamma, i fine wines, l’unica scelta possibile è ancora il tappo di sughero, il solo che consentirebbe l’evoluzione ottimale del vino. La dose di sarcasmo fin qui utilizzata vi suggerirà come la faccenda sia un po’ più complessa.

Ossidazione e microssigenazione eccessiva: i rischi del tappo di sughero

tappo a vite vs tappo di sughero

La storia dei tappi a vite applicati al vino parte all’incirca negli anni ‘60/70. Individuare una chiusura alternativa al sughero per i contenitori del vino era importante per ovviare a due problemi enormi che i tappi in sughero portavano con sé. Dice “ma come, non era il sughero il supporto ottimale per il vino”? Sicuramente è il suo supporto storico, utilizzato da tempo immemore per la propria struttura elastica, che si adatta ai fori delle bottiglie impedendo la fuoriuscita del vino. Tuttavia, l’uso questo materiale, soprattutto se di qualità modesta o scadente, portava con sé due i grossi rischi: l’ossidazione e il sentore di tappo.

L’ossidazione del vino avviene quando la chiusura non è ermetica. Il sughero ha sì struttura elastica, ma se gode di un ambiente con la giusta umidità; in ambienti troppo secchi, o in caso di mancato contatto del vino con il tappo, quest’ultimo comincia a seccarsi, riducendo il proprio volume di quel tanto che basta a far entrare una quantità eccessiva di aria, che procede ad ossidare il vino alterandone per sempre il gusto (e per questo viene prescritto di conservare le bottiglie in posizione orizzontale). La microssigenazione è un bene per i vini pensati per un lungo invecchiamento, ma una dose eccessiva di aria rovinerà anche il vino migliore.

Il tappo a vite non sa di tappo

tappo a vite nel vino

Il secondo, annoso problema è il sentore di tappo. La colpa qui è sostanzialmente di un fungo, l’armillaria mellea (meglio conosciuto come fungo chiodino), un parassita delle querce da sughero cui dona con gioia il 2,4,6-tricloroansolo (TCA). Questo sentore, una volta diffuso nel vino, non dà scampo e contamina qualsiasi profumo e aroma con il suo caratteristico olezzo di ‘pelo di cane bagnato’ o ‘cartone dell’ultimo trasloco fradicio e dimenticato nel sottoscala a far muffa da quattro anni’.

Si è provato ad eliminare il fungo in vari modi, ad esempio trattando il sughero con candeggina, ma la toppa era peggio del buco, con i tappi risultanti che donavano altre nuances detestabili alla bevanda. Attualmente, malgrado la tecnologia e tutte le accortezze del caso, le percentuali di incorrere in una bottiglia che sa di tappo orbitano attorno al 7%. E se dovesse capitare questo difetto, l’enoteca dove avete effettuato l’acquisto vi cambia senza problemi la bottiglia. Ma se aveste per caso preso anni addietro una bottiglia costosa, magari in una cantina estera, conservandola per un’occasione speciale, coccolandola in cantina con premure che superano perfino quelle riservate al vostro Jack Russell, e la sera dell’evento quella bottiglia sapesse di tappo? Sono traumi che non si dimenticano. Io, almeno, quella dannata bottiglia di Muscadet de Sévre et Maine del 2018 ancora la sto maledicendo.

Come invecchia il vino con il tappo a vite

vino che invecchia

Dunque, per ovviare a questi due problemi, e aggiungendoci anche una tematica ambientale (dato che per ottenere tappi di sughero bisogna comunque sfruttare il lavoro di alberi cui viene periodicamente sottratta la corteccia), si cominciò a sperimentare la chiusura con tappo a vite. La prima azienda a ritenere il tappo a vite un valida alternativa al sughero anche per i top wines fu la Stelvin che, attraverso anni di ricerca sulla qualità dell’alluminio e sul materiale del fondello, introdusse nel 1977 la prima chiusura a vite completamente standardizzata per bottiglie di vino. Tanto che, ancora oggi, il ‘Tappo Stelvin’ è diventato un sinonimo della chiusura a vite per i vini.

Una volta giunti a garantire la chiusura ottimale della bottiglia, la Stelvin si concentrò sulla parte più importante del tappo: il fondello, o liner, o guarnizione interna. Tutt’oggi la ricerca delle aziende produttrici è focalizzata sulla realizzazione di questi liner, composti da polimeri aventi struttura tale da consentire una microssigenazione calcolata e standardizzata. Vi ricordate l’obiezione iniziale, che il tappo a vite mummificasse il vino? È l’esatto opposto: un tappo a vite, grazie al suo fondello ingegnerizzato, fornisce al vino una microssigenazione nota e riproducibile.

Significa che tutte le bottiglie di una determinata annata chiuse con tappo a vite, verosimilmente evolveranno tutte quante allo stesso modo se conservate alle stesse condizioni. Tutto ciò non può essere detto per le bottiglie con tappo di sughero: non essendo riproducibile la microssigenazione tra un tappo e l’altro, dato che seppure per minuscoli dettagli tutti i tappi saranno diversi tra loro, ogni bottiglia evolverà a modo suo, con delle fluttuazioni organolettiche magari piccole ma percettibili dai palati educati. Dunque, un fattore imprevedibile influenzerà l’evoluzione del vino, mentre nelle bottiglie chiuse con tappo a vite, annullando la variabile del tappo, sarà solo la qualità del vino a determinare il proprio destino nel tempo.

E se la nuova chiave per raccontare il vino fosse la vulnerabilità? E se la nuova chiave per raccontare il vino fosse la vulnerabilità?

Una prova tangibile di quanto bene un vino evolva con questa chiusura è stata data lo scorso 14 novembre al Museo del Vino di Monteporzio Catone, con una verticale del grechetto Poggio della Costa di Sergio Mottura. Sono state per l’occasione confrontate sei annate di questo vino: 2024, 2021, 2020, 2018, 2016 e 2014, tutte chiuse con tappo a vite. Il Grechetto Poggio della Costa è un delizioso vino 100% grechetto, un’uva bianca dall’acidità contenuta e dalla buccia carica di polifenoli, affinato in acciaio e prodotto nella Tuscia viterbese quasi al confine con l’Umbria orvietana.  Il vino, più volte premiato con i Tre Bicchieri dal Gambero Rosso, è uno dei vertici dell’enologia laziale e i Mottura, Sergio e il figlio Giuseppe, hanno sempre creduto nelle sue potenzialità evolutive. In aggiunta, da almeno un ventennio, credono anche che il modo migliore di far evolvere un vino sia grazie alla chiusura con tappo a vite.

Questione di pregiudizi

La cosa sfida molte credenze popolari, dato che ancora oggi una miriade di gente ritiene assurdo pensare a un vino bianco come capace di invecchiare. Figuriamoci se parliamo di un’uva come il grechetto dotato di modesta acidità titolabile, un parametro tramandato come fondamentale per l’invecchiamento del vino, venendo dipinto come la sua “spina dorsale”. Ebbene, i Mottura hanno invece seguito istinto e ragionamento: una quota dei tanti polifenoli della buccia finiscono comunque nel mosto nella fase di pressatura soffice, fornendo al vino uno scudo contro gli attacchi del tempo.

In Italia produciamo troppo vino In Italia produciamo troppo vino

Il resto lo ha fatto la fiducia nella qualità del vino e nelle capacità dei tappi a vite. Senza entrare nei particolari organolettici della degustazione, vi basti sapere che il vino giudicato unanimemente più equilibrato ed espressivo è stato la 2016. Pensateci, un vino bianco laziale di quasi dieci anni, chiuso con tappo a vite e proveniente da un’uva mai celebrata per finezza e longevità: raccontatelo in giro e vi prenderanno per matti. Invece è semplicemente il futuro del vino, la strada da percorrere e il modo migliore per valorizzare il frutto di fatiche e sacrifici affinché possa affrontare il tempo senza venirne sconfitto.

L’ultima obiezione rimasta agli aficionados del sughero è “però così si perde la ritualità della strappatura della bottiglia”. Ah sì? Peccato che se il vino è datato il tappo trova sempre il modo di sbriciolarsi, e nessuno vuole nel proprio calice dei minuzzoli galleggianti. Oltretutto, stappare una bottiglia facendo il botto è volgare. Insomma, magari a malincuore, ma arriverà il giorno in cui il sughero andrà a sedersi accanto al cavallo, al walkman e al telegrafo a ricordare i bei tempi in cui erano i padroni del mondo.