Perché in Veneto si beve tanto? La risposta è in un film

Hanno fatto un film per raccontare il rapporto dei veneti con l'alcol, e tutto torna. Si chiama "Le città di pianura", ed è molto azzeccato fin dal titolo.

Perché in Veneto si beve tanto? La risposta è in un film

Facciamo che andiamo e berci l’ultima a Venezia, no?” Potrebbe partire da qui, da una proposta che Doriano lancia a Carlobianchi di fronte ad un tavolo pieno di bottiglie vuote di birra analcolica, il senso del film “Le città di pianura”, di Francesco Sossai, distribuito da Lucky Red e dallo scorso 2 ottobre nei cinema di tutta Italia. Doriano e Carlobianchi sono due cinquantenni, spiantati, stropicciati dagli eventi ma soprattutto avvinazzati, la cui unica ragione di vita risiede nella ricerca dell’ultimo bicchiere, in un pellegrinaggio alcolico in un Veneto contemporaneo, di cui Venezia e il territorio del trevigiano rappresentano le parentesi entro cui si dipana la storia.

Perché si chiama “Le città di pianura”

le città di pianura

Cercare di spiegare perché “Le città di pianura” sia tanto speciale, perché sia un piccolo capolavoro di provincia, perché finalmente riesca a raccontare il Veneto uscendo da una narrazione spesso macchiettistica fatta di attori prestati ad un dialetto irreplicabile e di luoghi comuni che sembrano non allontanarsi mai troppo da servette goldoniane ed etichette di polentoni, è in realtà cosa semplice: è innanzitutto un film sull’amicizia, sulla capacità sorprendente e disarmante di come certi incontri improbabili possano aiutare non tanto a crescere (“siamo troppo vecchi ormai per crescere” è una della battute più serie del film) quanto a guardare alla vita in modo non allineato ma a suo modo coraggioso.

Una vera e propria trama non c’è, se non uno srotolarsi di luoghi e situazioni immerse nell’umidità di Venezia e nell’immobilità di paesini solitari piantati nella campagna trevigiana, inseguendo appunto l’ultimo bicchiere insieme a Giulio, riservato studente di architettura dello Iuav che si troverà suo malgrado coinvolto nelle avventure dei due amici.

La relazione dei veneti con l’alcol è la trama

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Al termine dell’anteprima del film che si è tenuta a Mestre e alla quale era presente il regista, una signora ad un certo punto ha alzato la mano per commentare: “a me ha fatto molta tristezza vedere questi due alcolizzati, che passano le loro giornate a bere senza uno scopo”. Parole rimaste peraltro a mezz’aria, in una sala piena che invece aveva perfettamente colto il senso di un’opera che riesce finalmente – e non poteva essere altrimenti grazie ad un regista veneto – a raccontare la relazione tutta speciale che gli abitanti della regione (per anni identificata come la terra dei capannoni e della piccola media industria) hanno con l’alcol.

Una relazione che esclude che alla partenza ci sia la sete: in Veneto non si beve alcol perché si ha sete. L’alcol è un aggregatore, un acceleratore sociale, una base su cui costruire relazioni umane più o meno durature. Non si beve da soli, si condividono bicchieri anticipando pensieri e riflessioni tra amici, ci si ritrova nel proprio bar d’elezione per essere e sentirsi parte di una comunità mentre fuori il mondo si è sfilacciato e non ha mantenuto le promesse fatte. Ma l’alcol è anche un potente balsamo medicamentoso che aiuta a dimenticare.

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In Veneto si beve per rassegnazione, per rendere sopportabili le disillusioni (e la crisi del 2008 nel film le racconta bene), perché ad un certo momento ci si arrende. Soprattutto, come dice uno dei protagonisti, “la voglia di bere vino non si esaurisce mai” scomodando addirittura la teoria dell’utilità marginale decrescente, secondo la quale il giovamento percepito per il bene consumato decresce man mano che il consumo di quel bene aumenta: ecco, il piacere del bere non finisce mai, come non c’è mai un ultimo bicchiere. L’amicizia dei Doriano e Carlobianchi è generosa e si propaga proprio grazie al vino, finendo per includere un terzo elemento, imprevisto, Giulio appunto, morigerato al punto da non bere nemmeno caffè.

L’elenco di cosa si beve ne “Le città di pianura” è lungo: dimenticando la birra analcolica (“Signorina mi scusi ma questa birra ha un sapore strano…”. “E’ analcolica”), ci sono i bicchierini di vino del bacareto da Lele a Venezia la cui coppa sta nel palmo di una mano, il Calimocho, il Gin Tonic, il caffè corretto prugna, non manca lo spritz, le caraffe di vino della casa, i panciuti bicchierini di grappa e persino un Daiquiri con due gocce di Pernaud.

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Ma quello compiuto dai tre personaggi è anche un viaggio gastronomico, che annovera, in ordine sparso, i paninetti del bacareto Da Lele – riferimento imprescindibile per intere generazioni di veneziani, studenti e turisti (nel film sono citati un panino alla pancetta e uno al cotto e cren) e che in una manciata di metri quadri racchiude buona parte dell’essenza della città lagunare – le lumache – cui spetta il compito di raccontare, dopo la laguna, l’entroterra e la campagna – cui seguono pane e salame o meglio, sopressa.

C’è un pericolosamente seduttivo cocktail di gamberetti servito in una coppa eloquente la cui salsa rosa sintetizza perfettamente il senso degli anni ’80, e c’è soprattutto un gelato che arriva in chiusura, consegnando allo spettatore, nonostante le palline finiscano a terra in mezzo ad una statale, il senso della vita tanto evocato all’inizio.

Gli echi cinematografici e letterari de “Le città di pianura” sono molti: Il Sorpasso, le opere di Carlo Mazzacurati, quelle di Andrea Segre e di Aki Kaurismaki, e quelle di Vitaliano Trevisan e di Francesco Maino. Oltre all’umanità malinconica e minore che è un po’ il tratto comune degli autori ricordati però, c’è anche – finalmente – la capacità di raccontare con uno sguardo mai giudicante ma contemporaneamente assai lucido il Veneto di oggi, riprendendo un filo che sembrava essersi spezzato. “Le città di pianura” è un film sul vino e sull’amicizia che se altrove possono anche procedere separate, in terra veneta evidentemente, non riescono a farlo e forse non lo vogliono nemmeno.