È noto come le recensioni più divertenti da scrivere, oltre ad essere foriere di visualizzazioni, siano quelle negative. Eppure, per quanto possiate non crederci, qui a Dissapore abbiamo sempre privilegiato l’onestà alla visibilità, bacchettando solo chi se lo fosse guadagnato sul campo, senza indugiare oltre il dovuto con fare vichingo solo perché, oramai, si era già con la mazza chiodata in mano.
Lo abbiamo visto con i vini di Carlo Cracco o con quelli di Bruno Vespa: critiche circostanziate alle caratteristiche meno convincenti e, qualora ve ne fossero, elogi agli input positivi ricevuti. Tutto questo preambolo solo per dirvi che l’assaggio dei vini di Al Bano è stato pessimo. Inderogabilmente pessimo.
Le Tenute Carrisi

L’azienda di Al Bano, Tenute Carrisi, si trova a Cellino San Marco, nel piatto e assolato cuore del Salento. Partita come mera impresa agricola, con 36 ettari di vigneti e oltre 40 di uliveti, l’azienda nacque dalla promessa di Al Bano fatta al padre Carmelo: “vado al nord e diventerò un cantante. Poi tornerò qui e aprirò una cantina in tuo onore”.
Queste le premesse, ma poi col tempo ad Al Bano è scappata la mano ed oggi le Tenute Carrisi sono anche un resort 4 stelle, con cantina, ristorante e ospitalità diffusa. Bene, bello tutto, ma a noi interessa il nucleo originario della promessa: il vino. Abbiamo dunque fatto spesa nello shop delle Tenute Carrisi, acquistando tre vini: il Salento Bianco IGP “Felicità” annata 2025 (15 euro), il Salento Negroamaro Rosato IGP “Mediterraneo” 2024 (12 euro) e il Primitivo di Manduria DOP Riserva “La riserva di Al Bano dal 1973” 2018 (27 euro). E ora vi diciamo cosa ne pensiamo nel dettaglio.
Salento Bianco IGP “Felicità” 2025

Il pensiero immediato è stato: ma come, una 2025 in distribuzione già a dicembre dello stesso anno? Cos’ha fatto, un quarto d’ora di affinamento? Se peró alle Tenute Carrisi hanno reputato opportuno licenziare l’annata già dopo pochi mesi magari avranno avuto le loro motivazioni, per cui ci armiamo di cavatappi e procediamo.
Il colore del vino è di un giallo appena percettibile. Al naso è molto potente, sventaglia fiori a più non posso; tuttavia in sottofondo emerge una nota ammoniacale che svillisce non poco il bouquet.
In bocca il vino è una scimitarra: acido a dismisura. Di solito si usa il descrittore ‘fresco’ per indicare la sensazione lasciata in bocca da vini dotati di buona acidità fissa. Ahimé, il “Felicità” ha abusato della disponibilità di acidi fissi del vino, con la risultante sensazione di star bevendo una limonata. Come se non bastasse, il sapore del vino è assai modesto, non emerge affatto dalla foresta di picche che si è creata in bocca. Un insieme di sensazioni per nulla coeso. E tornando qualche riga sopra, alle Tenute Carrisi avranno sì avuto i loro motivi per far uscire una 2025 così presto, ma in tutta onestà noi che l’abbiamo assaggiato non ne troviamo uno valido.
Salento Negroamaro Rosato IGP “Mediterraneo” 2024

All’occhio il vino si presenta di color ramato intenso, più sul pantone dell’arancione che del rosa. Dato che può essere operato un agevole confronto con la vasta schiera di Negroamaro rosati prodotti in puglia, tutti inequivocabilmente rosa, chi più chi meno intensamente, il colore del nostro “Mediterraneo” non ci conforta per nulla: luce, cattiva conservazione in cantina o semplicemente il tempo trascorso potrebbero aver inciso pesantemente sul contenuto.
Il profumo sarebbe anche riconducibile a un rosato salentino, se non che le componenti fruttate sono assai modeste, facendo prevalere molte note terragne e leggermente ossidate. Insomma, neanche il naso attrae granché, confermando l’impressione ricevuta visivamente.
Anche per questo vino in bocca domina una spiccata acidità citrina, che sovrasta qualsiasi altra sensazione palatale. Nel complesso il vino già di suo poco memorabile, risulta massivamente sgraziato: la vasta concorrenza in zona lo relega molto in basso fra le vostre scelte rosate pugliesi. Se poi ci venisse detto che i problemi organolettici sono da attribuire esclusivamente a una cattiva gestione della bottiglia in cantina, la cosa aumenterebbe le nostre rimostranze: un’acquirente deve ricevere sempre un prodotto di qualità.
Primitivo di Manduria DOP Riserva “La riserva di Al Bano dal 1973” 2018

La bottiglia, invero assai pesante (ma che problema avete in Puglia con i Primitivo? Perché li imbottigliate in vetri dal tonnellaggio navale?), contiene un vino dal colore rosso vivo, scuro e impenetrabile. In questo caso il profumo si salva, con dovizia di frutta matura come more e prugne, fiori sotto spirito e cioccolato e tabacco.
Pensavamo di esserci salvati, e invece ecco l’assaggio a rovinare tutto: in bocca il vino non è affatto accogliente.
Anche in questo caso l’acidità troneggia, ce ne rendiamo conto dalle gengive arenacee nonostante il tannino sia pressoché nullo. Anche il corpo del vino è decisamente magro, cosa che stona con la comunicazione non verbale della massa del vetro. Cercando con la torcia si possono anche notare sensazioni speziate e fruttate, ma davvero si fa fatica a berne un secondo sorso.

Ciò che rimane dall’assaggio dei tre vini di Al Bano, oltre alla necessità di un gastroprotettore, è una sensazione globalmente spiacevole. Insomma, Al Bano non perde occasione per sfoggiare il suo background contadino.
Questo aspetto, sommato al prezzo non elevatissimo, crea nel cliente l’aspettativa di un prodotto di buona qualità. Percezione questa, spiace dirlo, completamente disattesa nei tre vini provati. Alla fine, oltre al brutto ricordo dei vini, resta una sensazione abbastanza straniante, benché sia coerente con l’animo di chi mosse accuse di plagio niente meno che a Michael Jackson: la stessa sensazione di un “ma perché?” sospeso e non pienamente difendibile.