Il nome del rosé

roseLe parole sono importanti, si dice: se usiamo il termine taglio per descrivere l’orrifico sorgere del prossimo rosé ottenuto mescolando rosso e bianco (che fin’ora s’era visto solo in certe osterie da avanspettacolo) ci condanniamo alla riprovazione; ma dicendo coupage, come fanno i francesi per il loro Champagne rosé, ecco che tutto sembra più lieve; la meglio bollicina mondiale è in controtendenza, e per ottenere uno champagne rosato, normalmente, non si vinifica in rosa alcun vitigno a bacca nera, ma si aggiunge un 10% di pinot nero (rigorosamente vinificato in rosso) allo chardonnay; la cuvée così ottenuta avrà un colore più vivido, e pure più stabile col tempo; per non dire delle nuances olfattive da ribes che rendono certi Champagne rosé dei veri campioni di piacioneria: assaggiare, per credere, quel giuggiolone di Ruinart rosé. Esistono anche gli Champagne ottenuti da vinificazione in rosa, i cosiddetti saignée – sono particolarmente ambiti dai veri enosnob duri e puri, quelli che comunque devono mostrarsi alternativi; ma, personalmente, io amo l’aspetto cromatico esagerato degli Champagne rosé da coupage; provate a metterne uno accanto ad un Franciacorta rosé, che viene ottenuto da vinificazione in rosa, e osservate la povera bollicina italica con scariche tonalità di buccia di cipolla: visivamente, non c’è gara.

E questa è l’eccezione; la tragica regola in corso d’elaborazione presso la UE prevede che si consenta una roba alquanto indigeribile, la produzione di rosatelli ottenuti da mix di rossi e bianchi; Franco Ziliani, qui, opportunamente riporta che tutto ciò “segue l’autorizzazione della pratica dello zuccheraggio, la possibilità di chiamare vino anche quello ottenuto dalla fermentazione di frutti diversi dall’uva ed è una diretta conseguenza della riforma di mercato europeo del vino, la possibilità di eliminare parte dell’alcol naturalmente contenuto nel vino e di utilizzare i trucioli per invecchiare il vino senza alcuna indicazione in etichetta”.

Il rosé taroccato è l’ennesimo segno di una concezione industriale della produzione enologica e alimentare, soprattutto quella legata ai prodotti d’eccellenza, che ha fatto un bel numero di disastri. E come al solito, il consumatore finale si dovrà fidare di etichette più o meno auto-certificanti. E invece, siccome il nome del rosé, o del rosato, prevede (a parte l’eccezione) la vinificazione in rosa, io avrei una propostina: evitiamo proprio di chiamarlo rosé, questo sottoprodotto del taglio rosso-bianco. Oppure, in alternativa, rassegniamoci al fatto che, di volta in volta, ci dobbiamo informare di persona su cosa vale, e su cosa no; quando il legislatore mette mano a questo settore, sembra votato a fare disastri; tantovale arrangiarsi.