Autolisi, la tecnica per pane e pizza (che complica la vita)

Autolisi, la tecnica per pane e pizza (che complica la vita)

L’autolisi, la tecnica per pane e pizza è veramente fondamentale per un buon lievitato o complica la vita, spesso inutilmente? Chiariamo che cos’è l’autolisi, a cosa serve, quali sono i suoi vantaggi e quando è utile applicarla.

Io vi adoro, davvero: quando vi parte la fissa per qualcosa iniziate a fare strage di concetti, mischiando tutto lo scibile racimolato su internet e buttandolo a casaccio in una ricetta, azzardando dosi, tempi e cotture nel più caotico dei modi.

I risultati, inutile a dirlo, sono inversamente proporzionali al numero di variabili introdotte: entropia allo stato puro, che di standardizzabile ha poco o nulla.

Ma la colpa non è vostra, per niente.
La colpa è di quell’infinito mare di (video)ricette che popolano il web, vomitate da “maestri” di ogni genere e sorta, la maggior parte dei quali non sa nemmeno cosa sta facendo e perché.

Ci sono poi le indicazioni fornite da professionisti veri, di fama internazionale, nate per dimostrare il proprio estro e la grande creatività che li contraddistingue; nel 90% dei casi però si tratta di realizzazioni complesse, adatte a un contesto da laboratorio, e il più delle volte con passaggi tecnici nemmeno tanto utili al risultato.

La conseguenza? L’utente appassionato guarda il video, sbava, si precipita al supermercato a far scorta di ingredienti e, una volta tornato a casa, inizia a replicare il processo appena visto. Quattro farine, grano spezzato, trebbie esauste dalla produzione di birra, due pre-impasti, alta idratazione, lievito madre, gelatinizzazione degli amidi (oh si, prima o poi parleremo anche di questo) e la stramaledettissima autolisi.

Si ragazzi, l’autolisi.
Autolisi ovunque, pure nel caffè.

“E ma l’autolisi migliora l’impasto, quindi va fatta”.

Oppure no.
Vediamo insieme di cosa si tratta una volta per tutte?

Cos’è l’autolisi?

In biologia, “autolisi” è il processo di disintegrazione delle cellule che interviene dopo la loro morte per opera degli enzimi contenuti nei lisosomi.

La tecnica dell’autolisi in arte bianca è stata sviluppata dal francese Raymond Calvel, ed è una sorta di pre-impasto che consente sostanzialmente di sfruttare l’autoevoluzione del glutine.

Si sviluppa in tre fasi distinte:

  • Miscelazione iniziale della farina con una parte dell’acqua;
  • Riposo dell’impasto autolitico ottenuto;
  • Impasto finale.

La prima fase della preparazione di un impasto autolitico consiste nell’impastare molto delicatamente la farina e il 55% dell’acqua prevista dalla ricetta.

La seconda fase, ovvero il riposo di questo primo impasto, può durare da 20 minuti fino a 24 ore.
La durata di tale riposo viene stabilita semplicemente in base alle caratteristiche della farina e alle esigenze produttive; in linea generale, quanto più la farina è forte e resistente, tanto più lungo dovrà essere il periodo di riposo. Se questo lasso di tempo è superiore alle 5/6 ore, è consigliabile aggiungere alla miscela di acqua e farina anche una parte del sale e ridurre la quantità di acqua al 45/50%, oltre a far avvenire la successiva conservazione a una temperatura di 18°/20°C; questo per impedire che la fermentazione “viaggi” troppo velocemente. Per tempi di riposo più brevi, l’impasto può invece essere lasciato a temperatura ambiente, anche nella stessa vasca dell’impastatrice.

Trascorso il periodo di autolisi si passa alla terza fase, ovvero all’impasto finale, nel quale vengono aggiunti tutti gli altri ingredienti della ricetta (il lievito, l’acqua rimanente, il sale ed eventualmente gli altri ingredienti previsti).

L’utilizzo dell’autolisi

La tecnica dell’autolisi nasce sostanzialmente per le stesse ragioni della biga (e dei pre-impasti in linea più generica): agevolare l’assorbimento di acqua, lo sviluppo della struttura, i profumi e la shelf-life, oltre a ridurre i tempi di lavorazione finale.

Il grano italiano è sempre stato debole, tenace, poco panificabile e in grado di formare ben poco glutine; si rendevano quindi necessarie pratiche di pre-impasto (come l’autolisi o la biga), utili ad agevolare l’assorbimento, la struttura e quindi la leggerezza del prodotto finito.

Oggi tuttavia, con la grande offerta disponibile sul mercato per quanto riguarda le farine, i pregi di tale metodologia risultano decisamente superflui. Pare infatti inutile ricorrere a pre-impasti e pre-fermenti quando in realtà la materia prima consente di soddisfare alte percentuali di assorbimento senza alcun aiuto; oltretutto, ogni metodo in aggiunta alla tecnica più semplice non fa che aumentare il numero di variabili in gioco, rendendo il processo scarsamente standardizzabile e ripetibile.

I pregi dell’autolisi (se applicata al giusto contesto)

Se utilizzata con rigore e senso logico, grazie a tale tecnica la consistenza dell’impasto diventa particolarmente liscia e malleabile, la formatura risulta più agevole e il prodotto finito presenta volume superiore, migliore alveolatura e maggiore sofficità della mollica.

Tutti questi vantaggi sono il risultato di processi fisici e chimici che hanno luogo durante il riposo della pasta. In questa fase, infatti, l’impasto subisce importanti modifiche, tra cui l’idrolisi (dal greco “hydro”= acqua e “lysis”= sciogliere, l’insieme di diverse reazioni chimiche in cui una molecola viene scissa in due o più parti per inserimento di una molecola di acqua) dei suoi componenti ad opera degli enzimi (in particolare amilasi e proteasi) attivati dall’acqua dell’impasto.

Sotto l’azione degli enzimi amilasi, l’amido si scinde in zuccheri, fornendo così elementi nutritivi ai lieviti contenuti nell’impasto. Di conseguenza, la fermentazione successiva dell’impasto finale sarà agevolata e anche le caratteristiche organolettiche del prodotto finito saranno migliori .

Quando è veramente utile fare affidamento all’autolisi?

In altri termini, un’autolisi ben eseguita dona all’impasto (sulla carta) una particolare estensibilità, migliora l’elasticità e il grado d’assorbimento dell’acqua.

È particolarmente utile quando si utilizzano farine molto resistenti, con un P/L elevato (rapporto tra tenacità ed estensibilità, una caratteristica reologica della farina indicata dal molino di appartenenza), o con il grano duro, dotato di un glutine molto “più chiuso” e dall’assorbimento più lento e graduale; in questo caso infatti rende più morbida la maglia glutinica grazie alla proteolisi (scissione delle proteine in peptidi e amminoacidi liberi grazie agli enzimi proteasi).

È di aiuto infine in presenza di farine che hanno un alto indice di FN (bassa attività amilasica), indicativamente di oltre 350 secondi; in questo frangente permette di far partire bene la fermentazione grazie all’amilolisi (trasformazione dell’amido in zuccheri più semplici svolto dagli enzimi alfa e beta amilasi) nonostante la carente attività enzimatica.

Un’autolisi troppo prolungata tuttavia (oltre le 24 ore) potrebbe tuttavia creare una fermentazione sbilanciata, in quanto il lievito avrebbe troppi zuccheri di cui nutrirsi a discapito di una maglia glutinica più debole.

Generalizzare, insomma, non è mai la scelta più saggia.
Ogni tecnica al suo contesto: se un procedimento migliora un risultato in una particolare situazione, non è detto che lo faccia in tutti i casi.

La prima regola è, per citare il buon Giovanni Tesauro (consulente in arte bianca), “standardizzare i passaggi semplici”. Autolisi, grano spezzato e gelatinizzazione degli amidi lasciatela ai maestri, magari un giorno ci spiegheranno perché si complicano la vita senza indugio.

[ Crediti: Giovanni Tesauro, Piergiorgio Giorilli, Fabrizio Casucci ]