Ci sono delle cose inequivocabilmente fasciste: il saluto romano a braccio teso e mano aperta – sì, proprio quello che ha fatto Elon Musk all’insediamento di Trump – è nazifascista punto (o ancora meglio, come diceva Giorgio Gaber, “è da stronzi oltre che di destra”). Poi ci sono le cose che di destra non sono, cose di tutti, ma di cui i fasci vorrebbero appropriarsi (Tolkien, ragazzi, sono decenni che ci provate, anche basta). Infine ci sono cose che, all’opposto, sono nate fasciste e poi sono diventate di tutti (ha fatto anche cose buone? Mmm, no non dicevo in quel senso). Tra queste, sorpresina, il tramezzino.
La leggendaria nascita del sandwich

Un attimo, cioè, qui parliamo del nome, non della cosa. La cosa, il sandwich, ha un’origine più antica, e altrettanto leggendaria (nel senso di leggenda metropolitana): risale alla seconda metà del ’700, quando John Montagu, quarto conte di Sandwich, giocava a carte in maniera così accanita da non potersi alzare manco per pranzo, e si faceva così portare il roast beef in mezzo al pane per poterlo mangiare con le mani. Prima di allora, viene da chiedersi, prima di questa versione prototipa e libertina del contemporaneo workaholic che consuma in fretta un panino restando davanti al PC, la gente come faceva? Metteva un pezzo di pane in mezzo a due fette di carne? C’è chi ha sostenuto anche questo.
Ma beffe nobiliari a parte, sta di fatto che il sandwich nasce e cresce come merenda aristocratica – non come marenna del popolo: non un panino grande e duro, ma fette di pane in cassetta, pane bianco, morbido, magari al latte, preferibilmente senza crosta. E dentro, ingredienti raffinati, contenuti da creme spalmabili e salse. Il sandwich arriva in Italia, ne parla anche Pellegrino Artusi nel suo libro del 1891; e nel 1925 la coppia Angela Demichelis e Onorino Nebiolo, di ritorno dall’America, rileva lo storico Caffè Mulassano in piazza Castello a Torino, e inizia a servire i tea sandwich, lo spuntino delle 5 di pomeriggio.
Dal traidue di Marinetti…
Ma c’è qualcosa che non va: il nome. Troppe lettere straniere, troppi suoni strambi… Il neonato regime fascista proprio in quegli anni inizia a condurre una battaglia contro l’esterofilia linguistica, contro la colonizzazione culturale. In molti ambiti – soprattutto lo sport per ovvi motivi (la maggior parte delle discipline è nata in Inghilterra), ma anche il cibo, per ragioni altrettanto immaginabili – la presenza di parole straniere è dominante, quasi totale. Parte la cosiddetta italianizzazione, si propongono dei nomi alternativi, più consoni alla nostra bella lingua. Alcuni sono delle mere traslitterazioni (sciampagna, brioscia), altri sono delle traduzioni/trasposizioni che sprezzano il ridicolo (arzente invece di brandy, bevanda arlecchina per cocktail) e che per fortuna ebbero vita breve. Altre parole invece ce l’hanno fatta, e ora sono di uso comune: come tramezzino.
Che poi il fascismo, come la destra contemporanea, ha sempre avuto un rapporto ambiguo con la tradizione, gastronomica e non solo: da un lato la spinta innovativa, “rivoluzionaria”, che portava i futuristi a disprezzare la pastasciutta. Dall’altro la difesa dei costumi popolari, la spinta conservatrice, l’autarchia – che va dalla mussoliniana battaglia del grano a, se ci pensate, le moderne etichette che vantano “solo ingredienti italiani”. Infatti una delle proposte per sostituire sandwich era stata avanzata proprio da F.T.Marinetti nel libro Cucina futurista del 1932. Il nome scelto è, tenetevi forte, traidue. Ci sono anche delle ricette: “(formula dell’aeropittore futurista Fillìa) Due fette rettangolari di pane: una spalmata di pasta d’acciughe, l’altra di pasta di bucce di mele tritate. Tra le due fette di pane: salame cotto”. Questa curiosa compresenza di dolce e salato, come di ingredienti indigeni ed esotici, torna nell’altra ricetta: “Due fette di pane al burro, spalmate all’interno di senape che comprimono banane e acciughe”. Top!
… al tramezzino di D’Annunzio
Per fortuna, o purtroppo, prevalse la proposta di Gabriele D’Annunzio, che trova già un riconoscimento nel Dizionario moderno di Alfredo Panzini del 1935: tramezzino. Come riporta il libro Storia del panino italiano di Alberto Capatti (Slow Food editore), nel 1936 compaiono varie ricette sul mensile La Cucina Italiana. Prevalgono gli ingredienti nostrani (lingua, gorgonzola, prosciutto…) ma senza totalmente espungere quelli stranieri (caviale). E soprattutto, dove il sovranismo gastronomico viene meno è quando si tratta di scendere nel particolare, e parlare ahimè proprio del pane: “I tramezzini si preparano col così detto pane a cassetta, detto anche pane inglese per via della sua origine: un pane quadrato, tutto mollica che troverete facilmente dai buoni fornai”.
Il nome tramezzino, come anche il cacofonico traidue (litiganti? moglie e marito?) si richiama a qualcosa che appunto sta in mezzo, divide (o unisce). Un piccolo tramezzo, anche se non è chiaro se il riferimento sia alla collocazione fisica (una separazione tra due cose come quella realizzata da un muro non portante, detto appunto tramezzo) o cronologica: all’epoca si chiamava “tramezzo” anche una portata di dimensioni minori che veniva servita tra due piatti più consistenti (e il tramezzino è piccolo), o ancora uno spuntino a metà tra i due pasti principali (e si è visto che la funzione originaria sembrava più di accompagnamento al tè di metà pomeriggio). Ma insomma, non sarà questo a cambiare il mondo.
Ciononostante, altre versioni continuarono – e continuano – a circolare: il Talismano della felicità di Ada Boni, 1931, parla di “sandwich club”, mentre la Cucina vegetariana di Enrico Alliata di Salaparuta, 1930, nomina le “librette”. E ancora oggi, se chiedete un sandwich da Mulassano, magari vi guardano storto o fanno finta di non capire, ma non chiamano la polizia. Sorte peggiore toccò a molte persone, sotto il fascismo: l’italianizzazione dei nomi è una cosa seria, e dobbiamo chiudere il pezzo con una nota triste. Mentre le leggi non potevano imporsi sulle parole di uso corrente – e infatti molti termini francofoni o anglofoni sono sopravvissuti – avevano invece gioco più facile con le denominazioni ufficiali. Fu così che da un giorno all’altro gli abitanti di Sterzig si svegliarono a Vipiteno, quelli di Morgex a Valdigna d’Aosta, eccetera. La repressione delle minoranze linguistiche ed etniche passava anche da questo. Migliaia di persone subirono una straziante perdita di identità quando furono obbligate, o “caldamente invitate”, a cambiare cognome: così Vodopivec diventò Bevilacqua, Rusovič cambiò in Russo, Krizman mutò in Crismani. Il tramezzino ha fatto anche cose buone?