Cozido das Furnas: alle Azzorre la chef è Madre Terra in persona

Il cozido das Furnas è uno spezzatino di carni miste tipico delle isole Azzorre, cucinato direttamente dentro la terra. Il nostro racconto di questo straordinario piatto e del suo metodo di cottura.

Cozido das Furnas: alle Azzorre la chef è Madre Terra in persona

Immaginate un posto dove lo stereotipo logoro della nonna maga in cucina trova finalmente degna sepoltura. Alle Azzorre, remotissimo arcipelago portoghese sovente descritto niente meno che come le Hawaii d’Europa, il piatto iconico, cozido su tutti, te lo cucina direttamente la Madre Terra – mi si perdoni lo slancio esoterico nell’uso delle maiuscole. Dunque il pranzo è servito dal ventre bollente del pianeta Terra, altro che le tagliatelle di nonna che hai idealizzato e che continui a non saper fare, o che ti hanno regalato la prima estatica ispirazione a diventare chef di successo, storiella che non manchi di ripetere ad ogni post sui social.

Azzorre, isole vulcaniche. L’ultimo capelinho (“cappellino”) è straripato dagli inferi all’improvviso solo una manciata di decadi fa. Terre di fumarole e pozze d’acqua calda sulfurea nascoste tra vegetazione tropicale da cui esonda un verde irreale. Paesini tranquilli, a ritmo lento puntellano strade tortuose ricamate da cespugli straripanti di ortensie, come viali d’accesso a una villa addobbata per un matrimonio reale.

azzorre cozido das furnas

Furnas è una cittadina termale dell’isola azzorriana São Miguel ed è però solo apparentemente sonnolenta. Un’elettricità impaziente percorre la via principale all’ora di pranzo, dove si concentrano i ristoranti tipici, in attesa che attraverso questi il piccolo villaggio riveli il suo più straordinario asso nella manica: il cozido das Furnas.

Uno spezzatino di carni miste e verdure cotto per molte, lunghe ore in buche scavate nel terreno in prossimità della fumarola principale della zona, in modo che i gas vulcanici bollenti e ricchi di composti e minerali aromatici ne raggiungano le cavità e compiano il lavoro di cottura. Questa preparazione molto antica è oggi quasi solo appannaggio di alcuni ristoranti specializzati, che affiggono una bandierina con il proprio nome in corrispondenza della buca a loro assegnata.

Quanta più varietà dei tagli di carne, tanto più apprezzabile il piatto. Ma non mancano mai pancetta, gallina, stinco di maiale, verze, patate e altre radici locali, e la straordinaria morcela, la salsiccia locale di sanguinaccio e spezie che spesso, al di là del cozido, è anche servita in spiazzante abbinamento con ananas fresco (memorabile, ndr).

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Dunque per il cozido si riempie un pentolone stratificando carne e verdure, si avvolge il tutto in un panno e si cala nella buca, senza aggiungere altro fuorché sale e pepe. Eppure questo piatto è tutto meno che semplice negli aromi che sprigiona. Le carni e le verdure, pur mantenendo ognuna il suo sapore caratteristico ben distinto, sono accomunate da sentori di… beh, sorpresa, terra e vulcano. Di gas, di zolfo, di sottosuolo, di fanghiglia calda, di foresta bagnata, di chimico indefinito e ferroso. Ogni boccone scatena un ossimoro sensoriale di aromi sì naturali e almeno parzialmente riconoscibili, ma di norma totalmente alieni al mondo edibile.

Intenso trip sinestetico che porta il sistema sensoriale ad uscire dal perimetro gastronomico usuale, per entrare in un universo immaginativo più complesso. Dove mangiando, letteralmente, si assapora una fumarola, una cascata, il fruscio di una pianta, una folata di vento d’altura mentre si percorre in bilico precario la riva di un cratere. Tutto ciò supera di slancio la narrazione antropologica del cibo come hyperlink, capace di evocare ricordi e sensazioni diverse legandoli insieme. In questo caso, il cibo non è solo vettore mediatico verso altri campi sensoriali, ma li contiene direttamente. Il cozido non evoca paesaggi, non richiama vulcani e piscine termali, ma ne contiene direttamente il sapore.

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Oltre il potente colpo gustativo, Madre Terra che cucina per noi fornisce un adeguato appiglio speculativo per indagare, ancora una volta, il valore simbolico e spirituale del cibo e di connessione con la natura, in particolare di questo tipo di tecniche ancestrali. Cucinare “con la natura” è anche una questione di tempi e ritmi: è come se l’ingrediente innescasse un unisono, ingranasse una frequenza che segue i ritmi della natura. Cottura né lenta né veloce, ma tanto quanto serve. Come se la natura riprendesse sotto la sua custodia ciò che ha creato, per ulteriormente trasformarlo e migliorarlo. Non è certo questa un’ode anti-cucina, o anti-ingengo umano, ma è indubbia l’allure magica al di là di ogni spicciolo romanticismo naturalista.

Nelle culture del mondo, il metodo di cottura in “forni interrati”, così vengono definiti, assume molteplici declinazioni: a volte il calore interno alla buca è procurato dalla brace di legno arso, altre volte da pietre vulcaniche scaldate e bagnate a generare vapore. Tutte però accomunate dal filo conduttore del ritualismo e devozione intorno alla Madre Terra e alla celebrazione della vita di comunità. Gli indigeni Maori della Nuova Zelanda si riuniscono intorno all’hangi, il tradizionale forno interrato, in attesa che la Terra, fonte di vita e di ogni cibo, prepari la cena. In Perù la stessa antica tecnica si chiama pachamanca, in Messico barbacoa, termine che parrebbe significare “fuoco sacro” in una lingua indigena antica.

Ricoprire di terra il forno interrato costituisce tipicamente l’ultimo passaggio di questi metodi, anche per il cozido azzorriano, prima che il processo di cottura vero e proprio abbia inizio. La funzione, di nuovo, è duplice, pratica e simbolica. Serve a sigillare e mantenere il calore all’interno, ma è anche una sorta di passaggio di consegne, dall’artigiano alla natura. “Il mio lavoro finisce qui, ora mi affido a te Madre Terra. E speriamo che vada bene”.