Cucina italiana patrimonio Unesco: cosa stiamo candidando?

Tutto era già scritto con Linea Italia in Cucina, di cui oggi, nel candidare la cucina italiana a Patrimonio Immateriale dell'Umanità, non si fa parola. Paradossi, stranezze e velleità del Bel Paese.

Cucina italiana patrimonio Unesco: cosa stiamo candidando?

Se nelle prime due puntate di questo trittico  dedicato al tema della cucina italiana candidata all’UNESCO – che vedremmo meglio sostituita dalla confidenza degli Italiani con il cibo, perché in essa si estrinseca in una passione veramente popolare per ingredienti e diversità territoriali – abbiamo constatato come una cucina davvero espressione unitaria di arte culinaria si trovi più facilmente tra gli italiani d’America, in questo capitolo conclusivo, è un piacere rivelare, come quasi sempre accade negli ultimi capitoli dei libri, il punto da cui si era partiti: la scintilla che aveva acceso la miccia.

Non accade all’improvviso e non è certo un caso se l’Italia oggi non è posto in cui un’unica tradizione culinaria unisca due paesi, anche all’interno della stessa regione, se la diversità di produzioni casearie, vinicole, norcine sembra potenzialmente infinita e fa qualche volta scuotere la testa agli esperti di marketing, i quali additano la mancanza di massa critica come una debolezza per delle strategie di promozione davvero efficaci a livello nazionale e internazionale.

Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso emergeva prepotentemente nel Paese un’idea di cucina creativa, profondamente legata all’estro e alla qualità cristallina del suo profeta, slegata dai territori d’Italia e dalla stagionalità delle materie prime. Alleggerita, ma estremamente tecnica, ricca ma di suggestioni e indipendente dalla storia e dal genius loci, la proposta di Gualtiero Marchesi assomigliava molto più a una filosofia che semplicemente alla cucina.

Oggi un gran numero di chef che ogni anno mietono gli allori della Rossa hanno avuto dal Maestro lezioni fondamentali o ne sono stati direttamente discepoli. Tuttavia, quella cucina, con quanto si consumava tradizionalmente nel Paese e con il modo in cui, nei suoi diversi angoli, si preparava il cibo non aveva, volutamente, molto a che fare. E verso la fine degli anni ’70, anche la Michelin fotografava questa dicotomia tutta italiana, giacché alla stella erano assurti quasi contemporaneamente tanto il primo ristorante aperto da Gualtiero Marchesi (in quel Bonvesin de la Riva 5, dove tutt’ora ha sede l’accademica che ne porta il nome) quanto la Locanda del Sole di Maleo, di Franco e Silvana Colombani.

Linea Italia in Cucina

Franco Colombani è stato il Giovanni Battista della cucina delle regioni d’Italia che, non senza una potente evoluzione, rappresenta oggi quel modo di mangiare locale e (asseritamente) casalingo che conquista il cuore della maggioranza nel Belpaese, mentre è pressoché scomparso nella vicina, pur imprescindibile Francia. Ottenne la prima recensione su La Cucina Italiana nel marzo 1965, la cucina allora retta dalla madre Caterina Marchesi (erede della famiglia che aprì il locale), affiancata (ma non nominata nell’articolo…) dalla futura moglie di Franco e artefice dei manicaretti per un trentennio, Silvana.

Colombani alla fine degli anni ’70 guida un’avanguardia di retrovia della ristorazione italiana che capisce le necessità di rinnovamento nelle preparazioni ma rifiuta l’annichilimento del ruolo degli ingredienti (da protagonisti dei piatti a mere variabili nelle mani demiurgiche del cuoco) e quindi dei territori diversi e delle stagioni ineluttabili. Di quella carboneria della ristorazione resistente al vento internazionale della cucina totale (uno degli aggettivi utilizzati per definire l’arte di Marchesi) fanno parte diversi nomi che tutt’ora rifulgono: uno per tutti, Al Pescatore di Canneto sull’Oglio. In quel clima, Franco, auspice la storica direttrice de La Cucina Italiana Anna Gosetti della Selda, è fautore della nascita di una associazione fra ristoratori che si chiama “Linea Italia in Cucina” e che ha precorso ampiamente i tempi e le istanze che sarebbero state anni dopo quelli di Slow Food e Gambero Rosso. Non è un caso se l’Associazione nasce nel 1980 e, nel 1982, il primo numero de La Gola dedica a Il Sole di Maleo la prima recensione, firmata nientemeno che da Paolo Volponi.

Erano dei precursori, erano già sulle posizioni su cui poi, con un movimento di massa, si sarebbe attestata Slow Food quasi dieci anni dopo: perché sebbene pionieri rappresentavano comunque una élite, ristretta”: con queste parole Carlo Petrini ha risposto alla mia domanda su chi fossero Colombani e i suoi sodali all’inizio del decennio che ricordiamo tutti per Craxi e la TV commerciale. Ampi scorci dello statuto dei Linea Italia in cucina si possono leggere nel bel volume di memorie su quel sodalizio pubblicato in formato elettronico da Massimo Ghidelli. Io riporto qui uno stralcio dell’articolo 4:

Limitare il numero dei piatti nel menu: un pranzo italiano dovrebbe essere composto di un antipasto, un primo, un secondo, formaggio e dolce, con pochi adeguati vini. Seguire unicamente le stagioni. Non inventare e non proporre menu ermetici, non servire i tris, non seguire le mode, non farsi strumentalizzare.

Erano dei nostalgici? No. Ghidelli mette bene in luce la distanza dell’associazione dai valori della tavola italiana codificati dall’Accademia Italiana della Cucina solo pochi anni prima.

Colombani, Santini, Cremonesi, Ferrari e gli altri erano impegnati a trovare una via per unire la confidenza degli italiani con il cibo – fatta di ingredienti da scoprire, sempre diversi e tutti degni di curiosità, matrice casalinga delle preparazioni tradizionali – e le nuove modalità di preparazione e servizio: meno grassi, meno lunghissime cotture, impiattamento rigorosamente in cucina (contorno compreso). Tuttavia, senza rifiutare aprioristicamente le conoscenze e le abitudini.

L’ottimismo della volontà

Nella puntata del 21 aprile 1980, che apre il suo Viaggio sentimentale nell’Italia dei Vini, Veronelli inizia il tour proprio da Maleo, dove riceve “il viatico” da Colombani: un bicchiere di Sauvignon Blanc piacentino, leggero, semplice e piacevole, definito “euritmico”. Il gastronomo vorrebbe forse un invito a difendere il vino minacciato, a rischio di fronte alla modernità: Colombani lo gela, dicendogli che per lui quello era il momento magico del vino italiano, con un pullulare di nuovi produttori che facevano già benissimo e che per aumentare la propria cerchia di estimatori non avrebbero dovuto fare altro che continuare a puntare esclusivamente su ciò che mettevano nelle bottiglie. Parlava a ragion veduta: era stato da poco presidente nazionale AIS e presidente dell’Association de la Sommellerie Internationale (ASI).

Come lo scandalo del vino al metanolo ha cambiato il vino italiano (e non) Come lo scandalo del vino al metanolo ha cambiato il vino italiano (e non)

Sei anni prima dello scandalo del metanolo, che non senza fondamento i più ritengono il punto da cui il vino italiano è ripartito, c’era già chi, girando i territori e cercando prodotti, per lo più in sella a una Vespa, aveva visto cosa andava emergendo ineluttabilmente: un contrasto che maggiore non si può immaginare se si confrontano quelle parole registrate a un tavolo del Sole con la sfiducia preconcetta nei vini con le etichette delle tante nascenti cantine, affermata da Mario Soldati nella seconda puntata della stessa serie.

Insomma, se nel corso degli anni ’70 Marcella Hazan ha rappresentato la confidenza degli Italiani con il cibo, nel tentativo di (ri)convertire gli Americani alle gioie della cucina regionale d’Italia, è certamente anche perché nel corso di quel decennio quella cucina era percorsa, nel Belpaese, dalle traiettorie di persone di assoluta levatura culturale che avevano ben chiaro come la cucina potesse cambiare, in termini di pratiche culinarie e di servizio, andando incontro all’evoluzione del gusto, alle esigenze di una cittadinanza sempre meno affamata di calorie e più invece di scoperte, ma alla quale non bisognava rispondere “con un pisello nero in un piatto, perché quella non è cucina: è provocazione”.

Se oggi, come ha constatato Chiara Cavalleris a partire dallo spunto apparentemente futilissimo di una trasmissione pecoreccia, la distanza tra cucina di territorio e alta cucina, nel Paese, si misura in popolarità della prima e snobismo elitista della seconda, è anche perché ai pochi pionieri già menzionati e a quelli (più in generale, sebbene forse con meno caratterizzazione ideale) dei “Ristoranti del Buon Ricordo” fondata da Villani per rispondere all’appello di Orio Vergani (La cucina italiana muore!) nel 1964, si sono aggiunti i luoghi le donne e gli uomini di tante parti d’Italia.

Paradossi

Quando a Parma, nel giungo del 2023, durante un convegno accademico, diversi esponenti del comitato autore del dossier di candidatura al patrimonio immateriale UNESCO hanno esposto le ragioni della candidatura, pur nel rispetto della segretezza del dossier fino a pronuncia dell’agenzia dell’ONU, non abbiamo sentito cenno a “Linea Italia in Cucina”.

La cosa è stata sorprendente: senza la rivista La Cucina Italiana quell’associazione non sarebbe nata, quei protagonisti di una vivacissima avanguardia di retrovia non avrebbero trovato una via per unire esigenze nuove a qualità di ingredienti e costanza di abitudini. Dalla direzione della rivista, oggi principale fautore della candidatura, gli accenti sono stati posti sul dialogo con gli chef contemporanei, sulle stelle, sullo straordinario livello raggiunto dall’alta cucina del Paese. Insomma, assai più su Marchesi che su Colombani.

D’altro canto, il presidente del comitato Massimo Montanari ha profuso i propri sforzi nel dimostrare come esista un’unitas italica nel modo di approcciare la tavola e il cibo: ma a noi pare, e al termine di questo piccolo viaggio crediamo vada ribadito, che quell’approccio non passi per la cucina, la preparazione, l’inventiva del grande cuoco e il fascino dell’intellettuale con la giacca bianca, che viceversa nella stessa sede veniva celebrato come centrale. A meno che non si voglia sostenere che quando si dice “cucina” si intenda altro e quindi si usi quella parola per una scelta politica, prevalente sulla semantica.

L’unitas Italica si riscontra nella difesa dell’importanza, e quindi della centralità, della ricerca di ingredienti particolari, rari ancorché economici, frutto di scoperta che premia la curiosità incessante, alimentata senza sosta dal continuo parlare di prodotti, produttori e luoghi che sono ciò che chi gira il mondo ha il massimo piacere di portare a coloro da cui torna, come ricordava Luigi Scaccabarozzi a Veronelli e Colombani.

Dunque, smettiamo di cercare inesistenti pratiche di cucina che uniscano gli angoli d’Italia e i grandi chef con il savoir faire delle nonne e volgiamo piuttosto lo sguardo (e la meritoria volontà di candidare per salvaguardarla) alla confidenza degli italiani con il cibo, autentico sapere tradizionale tramandato tra le generazioni, fondato sulla conoscenza dei luoghi da cui gli ingredienti originano, alimentato dallo studio in quelle biblioteche preziose che sono i ristoranti dove non si ripetono gli stilemi del passato né si fonda la proposta sulla novità per stupire con l’ignoto e il bizzarro, ma si rinnova continuamente il modo in cui, attraverso il cibo, si incontrano la terra e le stagioni da cui il cibo trae origine.