Death Cafè e Día de los Muertos, quando la morte fa meno paura

Biscotti, tè, brodo: quando il cibo addomestica la morte e aiuta a esorcizzarla. Dai Death Cafè anglosassoni al menu di Davide Scabin.

Death Cafè e Día de los Muertos, quando la morte fa meno paura

Addomesticare la morte ed esorcizzarla. Si tratta di riti, feste, momenti di condivisione che si perdono nella notte dei tempi e che sono nati e si sono sviluppati perché, diciamolo, la morte è il più grande mistero della vita. E così mentre il mondo occidentale impazza a intagliare zucche appropriandosi di una cultura che non sempre le appartiene, c’è anche chi non aspetta Halloween per guardare in faccia l’aldilà.

Succede, per esempio, con i Death cafè, il cui senso profondo non è altro che quello di aumentare la consapevolezza della morte, provando a spogliarla dei suoi tabù e cercando quindi di apprezzare ancora di più la vita. Del resto, lo diceva già Epicuro: “Se ci sono io non c’è la morte, se c’è la morte non ci sono io: siamo destinati a non incontrarci mai”. E meno male, diciamo tutti, ma in questa storia che si affaccia alle culture del mondo e guarda ad ampio raggio al passato, c’è un lato che prova a rendere più dolce questo passaggio, ed è ancora una volta quello del cibo.

Death Cafè

latte art teschio

Il primo Death Cafè si è tenuto nel 2011 a Londra per mano della psicoterapeuta Sue Barsky Reid, e da allora se ne sono svolti migliaia in tutto il mondo (appuntamenti su www.deathcafe.com). L’idea nasce dall’esperienza del sociologo ed etnologo svizzero Bernard Crettaz che già nel 2004 organizzò i Café Mortels il cui invito era quello di parlare di morte al bistrot.
Diffusi soprattutto nei Paesi anglosassoni e scandinavi, raramente si trovano in Italia o nel Sud dell’Europa, ma nello scorso mese di settembre a Torino si è svolto il più grande Death Cafè del mondo. Nell’ambito del Festival Torino Spiritualità seicento persone si sono riunite nella chiesa di San Filippo Neri e, suddivise in tavole da dieci, hanno parlato con sconosciuti della morte sorseggiando un tè e mangiando pasticcini. In ogni tavolo c’era uno psicoterapeuta per governare la conversazione, rompere il ghiaccio e dare il via a un dialogo che nasconde spesso troppi tabù. La morte spaventa, certo.

Non se ne parla perché provoca dolore, risveglia dubbi e incertezze, ricorda la caducità del tempo, ma fa parte della vita: ecco perché discuterne insieme ad altre persone (sconosciute) aiuta a liberarsi da quello che si ha dentro; lo posso confermare perché, agli incontri tenuti al Circolo dei Lettori nell’ambito di Torino Spiritualità, ho partecipato anche io. Quello che colpisce è la naturalezza con cui, alla fine, ciascuno dei partecipanti tocca l’argomento: tante voci insieme rendono la propria più forte e, sembrerà assurdo, ma farlo sorseggiando una bevanda calda o gustando torte e biscotti aiuta a smorzare la dimensione del dialogo, rendendolo appunto un atto naturale, come quello del mangiare. Insomma, il Death Cafè è una sorta di seduta psicologica a basso costo in cui l’unica regola (non obbligatoria) è quella di aprirsi e confidarsi senza usare toni troppo pesanti e così, tra un dolce e l’altro, la morte (forse) fa meno paura.

Cibo e rituali

Del resto il potere taumaturgico del cibo è noto da sempre. E il cibo è sempre appartenuto anche all’idea del sacro: per questo è stato considerato degno di profondo rispetto sin dalle epoche passate. Il cibo è ancora oggi, come migliaia di anni fa, al centro delle religioni di tutto il mondo: esiste il divieto di mangiare determinati prodotti nel mondo islamico; ci sono regole ben precise per quanto riguarda la cucina Kosher ebraica; sussistono i periodi di digiuno legati al mondo cristiano che ha nella condivisione del pane e del vino il suo più grande valore simbolico; le regole del buddismo si bassano sull’idea fondamentale di nutrirsi solo di ciò che è necessario eliminando il superfluo; nella religione induista ci sono invece le puja, ossia le offerte di cibo alle divinità, che rivestono un ruolo fondamentale in questa cultura, con la presentazione di piatti tipici a base di latte e riso in onore di Ganesh o per celebrare feste come Kumbha Mela o Navaratri.

Il culto funerario (anch’esso simbolo) ha sempre permesso ai vivi di riconoscere la morte in continuità con la vita e di “mantenere una relazione con l’estinto socialmente disciplinata”, scrive Ines Testoni nel suo volume Il grande libro della morte, edito da ilSaggiatore. Va anche detto che tratto comune a tutti i popoli è sempre stata la sensibilità da parte dei vivi nei confronti della tomba dei cari scomparsi. E come testimoniano i riti funerari del passato la morte è sempre stata vista come il trapasso verso un’altra esistenza: ecco perché i defunti dovevano avere tutto ciò che sarebbe potuto servire loro per l’ultimo viaggio e, tra questi, ovviamente non poteva mancare il cibo. Basti pensare al mondo greco-romano che tramanda pratiche come i banchetti funebri che si svolgevano diverse volte nel corso dell’anno proprio nel periodo che va dall’autunno alla primavera. Le caratteristiche di questi momenti di incontro al sepolcro erano la gioia e la spensieratezza, l’oblio dei rancori che affliggevano le famiglie: il pasto veniva consumato tra parenti in onore di tutti i morti con lo scopo di accogliere le anime e, per l’occasione, venivano portate delle offerte come ghirlande di fiori, spighe di grano, granelli di sale e pane inzuppato nel vino.

Día de los muertos

pan de muerto

Riti che appartengono a culture diverse, in differenti parti del mondo e che, ancora oggi, raccontano di come l’approccio alla morte e alla vita possa essere profondamente diverso. Il caso più esemplare di tutti è forse quello dell’America Centrale e del Messico. Qui la commemorazione dei defunti si trasforma ogni anno in una sorta di carnevale con un’esplosione di colori che è una vera e propria festa. Sulle tombe dei defunti non si portano solo fiori come succede in Europa, ma anche dolci, frutta e bottiglie di tequila.

L’allegria pervade strade, case, famiglie, cimiteri dove si improvvisano anche concerti per i defunti. La tradizione locale vuole che il 2 novembre, el Día de los Muertos, i morti tornino dall’aldilà per riabbracciare i propri cari, ed ecco che le famiglie creano dei veri e propri altari (ofrendas) di sette piani con foto e oggetti cari al defunto scomparso. Nel primo livello viene posizionato il santo a cui si è devoti, il secondo ha lo scopo di consentire ai morti di attraversare il purgatorio, nel terzo si mette il sale che impedisce al corpo di decomporsi durante il percorso, nel quarto il pan de muerto: alimento di forma circolare che simboleggia il ciclo della vita. Sul quinto livello si posizionano quasi tutti gli alimenti preferiti dal defunto (bevande comprese), nel sesto la foto del congiunto a cui è dedicato l’altare e nell’ultimo una croce con cui simbolicamente verranno espiate le colpe. A tutto questo si aggiungono l’acqua, necessaria a placare la sete del viaggiatore verso l’oltretomba, le candele che illuminano l’anima nel cammino e i fiori che ne sono la guida.

La Calvera Catrina è la personificazione della morte secondo il folklore messicano ed è la figura centrale di questa ricorrenza vocata alla gioia e al colore, mentre i calaveras sono piccoli teschi di zucchero colorato, dei dolci scambiati nel giorno dei morti. E il Día de los Muertos dal novembre 2003 è patrimonio dell’Unesco: la festa in cui la morte sorride rappresenta infatti una delle espressioni culturali più antiche tra i gruppi indigeni del Messico e diventa emblema del celebrare la vita.

LGBT

Davide Scabin

E poi c’è chi al Día de los Muertos dedica un intero menù: è Davide Scabin con il suo Long Gourmet Brainstorming Time che viene servito nel Ristorante Carignano di Torino. Due ore e mezza di percorso enogastronomico per provare a dare una definizione di gusto attraverso nove portate che si susseguono secondo la regola dell’Up & Down di scabiniana memoria.
Sono due i motivi principali – spiega lo chef – per i quali dedico il menu a questa festa messicana: il primo perché è una festa gioiosa, che celebra la soglia dove visibile e invisibile convergono, e i morti e i vivi si ritrovano in un clima di allegria. Il secondo è perché i Días de los Muertos, nella cultura precolombiana, si svolgevano tra agosto e settembre e coincidevano con la fine dei grandi raccolti. Erano un rito di fine estate per rendere omaggio all’abbondanza, in cui si organizzavano grandi banchetti ricchi di cibo, profumi, musica e colori, aperti a chiunque, vivi e morti. Solo da pochi secoli, in seguito alle colonizzazioni, la festa – prosegue Scabin – è stata fatta coincidere con i giorni dei Santi e dei Morti della religione cristiana. Ecco, io la celebro come un augurio che una festa da me sia questo: un tempo pieno di cose buone non solo da mangiare e aperto a tutti”.

E il percorso a tavola è scandito da una clessidra che i commensali decidono se capovolgere o meno. Il concetto è chiaro: a tavola smetti di riempire il tempo e vai in un altrove in cui puoi riappropriarti del senso della festa; il cibo e l’atto del mangiare non hanno un tempo contingentato, ma portano in altre dimensioni. Un estraniarsi che è un po’ un rito di passaggio come in quel Día de los Muertos in cui l’assenza ritorna presenza in un momento di festa.

Davide Scabin è il nuovo chef del Ristorante Carignano Davide Scabin è il nuovo chef del Ristorante Carignano

Prosegue Scabin: “Abbiamo un immaginario in cui il più delle volte ciò che dal sottosuolo, reale o metaforico, emerge sulla superficie ci fa paura, mentre io voglio raccontare la bellezza del passaggio, di quando l’assenza torna presenza, di una forza invisibile che diventa visibile, di ciò che è oscuro che diventa luminoso. Un passaggio accade sempre su una soglia fra il percepito e l’impercettibile, e quella soglia troppo spesso viene pensata come un limite, mentre invece è uno spazio infinito e fluido che la nostra mente non può definire. Ecco perché in questo menu utilizzo moltissimi elementi, materiali e simbolici, che abitano la soglia e che non possiamo definire, come per esempio le lumache e le anguille, che nei secoli hanno fatto impazzire la scienza. Siccome la storia, l’antropologia, la filosofia ci insegnano che non c’è rito di passaggio in cui il cibo non sia presente nel suo significato simbolico e sensoriale, va da sé che l’atto di incorporare un simbolo fa diventare il nostro corpo una specie di stargate che ci apre a dimensioni inusuali impensabili nella quotidianità”.

E nel menu di nove portate che spazia dalle Costolette d’agnello alla Villeroy al Savarin di riso affumicato o a un piatto come Ostriche, banana verde e chorizo in thai style, è però quel Cx5+9.3 a dettare il senso di tutto il percorso, il Brodo di gallina e manzo servito freddo e poi caldo, a irrorare cipolle, scalogno e porro in diverse temperature e consistenze. Questo piatto è la preparazione centrale di tutto il menù: il brodo è la preparazione che rappresenta Scabin e lo commuove perché “è materia che non c’è più, ma torna in vita”, ama ripetere lo chef; è l’emblema della cura e viene offerto a chi sta male. Per Scabin il brodo è un legame di sangue: “C’è un coinvolgimento emotivo altissimo nel fare il brodo. È un processo che paragono a un parto, perché il brodo ha una lunga gestazione: freme per ore che quasi ti dimentichi che esista, fino alla fase finale, quella della chiarificazione, quando emerge all’improvviso da sotto la sua crosta con una tale virulenza, con una voglia di vita… Gli ingredienti di un brodo – prosegue Scabin – non sono materiali. Quel liquido contiene già il tempo, i gesti e la memoria. Contiene una vita finita che ritorna viva, per questo forse quasi sempre cade un silenzio sacrale nel momento in cui il brodo viene offerto, e si socchiudono le palpebre quando lo si accosta alle labbra. 9.3 è il più alto grado riproducibile ottenuto finora nella mia personale scala di valutazione di un brodo, che non riferisce semplicemente al colore e al gusto, ma a quanta voglia di vita esprime, perché un brodo non è una ricetta, una preparazione, una base. Fare un brodo – conclude – è una responsabilità nei confronti del prossimo e, per quanto mi riguarda, il mio modo per omaggiare il creato”.