Uno dei principi fondamentali del marketing è quello di santificare le feste, di solito quelle pagane. Il festeggiamento infatti sancisce emotivamente il momento culmine di un’azione, spesso vittoriosa. Per questo la decisione di illuminare a giorno il Colosseo, con il tricolore e una scritta enorme “la cucina italiana la prima al mondo patrimonio dell’umanità” – che fa alzare il sopracciglio di chi ha canoni estetici più raffinati – è invece una gran genialata, perché è così grottesca con non ce la dimenticheremo mai.
Quella della cucina italiana come patrimonio Unesco è una vittoria che il governo Meloni si attribuisce con gran spavalderia. La proposta è stata depositata a marzo 2023 da una coalizione di organizzazioni: l’Accademia italiana della cucina, la fondazione Casa Artusi e la rivista La cucina Italiana. Il dossier è stato però ufficialmente presentato all’UNESCO dal Governo italiano, attraverso i Ministeri competenti (Cultura, Agricoltura e Sovranità Alimentare, e Affari Esteri).
Insomma, se il governo se ne fa un vanto non ha del tutto torto. Quello che però proviamo a contestare è che il riconoscimento alla cucina italiana come patrimonio dell’umanità sia il primo riconoscimento a una cucina nella sua interezza. Anzi. Nel 2010, il primo riconoscimento alla cultura enogastronomica da parte dell’UNESCO è andato alla Francia per “la composizione del pasto”, e al Messico per la cucina tradizionale messicana originaria del Michoacán. Dunque non premi a singoli piatti come è avvenuto per esempio per il cheviche peruviano, ma proprio alla cultura gastronomica. La stessa cosa che è accaduta alla cucina italiana.

Certo, sono premi che hanno sfumature diverse. Chi ha frequentato le case delle famiglie francesi sa che la composizione del pasto è una cosa abbastanza sconvolgente anche per noi, che tradizionalmente a queste cose ci teniamo. L’art de table, cioè il fare la tavola bella, viene naturale come bere un bicchier d’acqua [io, se voglio applicarmi, passo almeno una settimana su Pinterest per farmi venire qualche idea]. Per non parlare dell’irrinunciabile momento dell’apero, almeno un’ora e mezza. Dunque se l’invito per cena è alle 19, prima delle 21 non ci si siede a tavola ma si sta accomodati sul divano a spizzicare e soprattutto a bere vini importanti, champagne, ma anche cocktail. E c’è di più: ho frequentato case in cui gli anziani redarguivano chi non offriva insalata e formaggio prima del dessert dolce. Per dire.
La cucina messicana, viene invece premiata per le sue tecniche ancestrali, tra cui la celebre nixtamalizzazione, passate di generazione in generazione, e la particolare attenzione alla sostenibilità. Ma anche qui è un premio a tutta la cucina.
Possiamo dire che sono premi diversi, perché intercettano abbastanza acutamente le differenze tra le varie cucine. Pensiamo al premio francese e a quello italiano ad esempio. Della cucina italiana si dice che “rafforza legami sociali e comunitari”, perché si cucina insieme, perché certi rituali di cottura sono tradizionali e vengono tramandati dalle nonne. L’altro accento che si mette è sulla materia prima locale e stagionale e sulle ricette anti spreco.

Rispetto al riconoscimento francese ci sembra di notare che quello italiano sancisca che la cucina italiana ha una matrice popolare, quella francese invece ha una matrice fortemente borghese [n.d.r.: il servizio alla francese nasce nelle Corti Europee settecentesche, il momento apero nasce invece nell’immediato dopoguerra, come momento di sfarzo domestico].
Su Domani hanno bacchettato la sinistra (strano) per come stia battendo in ritirata, provando a dare poco peso alla faccenda e diramando comunicati che ricordano le condizioni eufemisticamente precarie dei lavoratori nell’agricoltura italiana. Sono voci sacrosante, ma poco cool, in cui sottotraccia passa il messaggio: “Noi ci interessiamo solo alle cose importanti” oppure “Le piacevolezze sono per gli stolti”, l’ennesimo autogol comunicativo. Eppure qualche tema da recuperare c’era, anche se un po’ consunto dall’uso; che ne dite de: “l’integrazione passa da tavola”? Ma anche una semplice pasta e fagioli proletaria, con un tocco vintage, faceva al caso.
Invece la verità è che abbiamo tutti giustamente rosicato per 15 anni che la nostra cucina non fosse stata presa in considerazione; e in questi 15 anni abbiamo avuto 15 edizioni di Masterchef. Speriamo che le cose non siano veramente collegate, ma ora che siamo riusciti a colmare la lacuna per una volta potevamo scrivere sul Colosseo solo i fatti, senza le interpretazioni: “Cucina italiana patrimonio dell’UNESCO”. E gioire della bella cosa, senza tutta quella sovrastruttura dello sciovinismo. Sarebbe stata una lezione di stile. Per quello, evidentemente, dobbiamo ancora presentare candidatura.