L’agnello italiano non è un granché

Non possiamo avere l'uovo e la gallina, o meglio, grandi pecorini e un buon agnello (italiano) in tavola. E ci tocca farcene una ragione.

L’agnello italiano non è un granché

Come ogni anno, anche questa Pasqua abbiamo cucinato e mangiato agnello. La domanda è: ci è davvero piaciuto? Quanti tra coloro che, con la festa comandata, mettono in tavola carne ovina alla fine si trovano soddisfatti al cento per cento di quel che hanno mangiato? Perché molti, più o meno a ragione, spesso lamentano tutta una serie di disagi.

Il sapore, a volte troppo forte, quasi acre, che arriva a scoraggiare anche molti carnivori. L’odore, da alcuni definito persino pungente. Tanto che c’è chi, prima della cottura, sottopone questa carne a lunghe marinature, quando non a lavaggi catartici in vino o aceto, come si fa ancora in campagna per la selvaggina e per bestie nostrane come i conigli.

Poi, c’è la questione della quantità esigua di ciccia attaccata agli ossi e, di conseguenza, la poca succulenza. Il colore è un rosa con poco carattere, se non proprio pallido.

Insomma, alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è trovato a rosicchiare tristemente bocconi asciutti e di dubbio gusto.

Ma come, dirai? Io compro l’agnello dal mio super-macellaio-di-fiducia, col suo bel prodotto a filiera corta, quando non proprio a chilometro zero. Cosa ci può essere di meglio di un bel piccolo di italica pecora?

Con buona pace degli amici sardi, abruzzesi, laziali e compagnia, la risposta va cercata fuori dai confini nazionali.

Pecore da latte

Pecora appenninica

Facciamo un passo indietro. Nel nostro Paese, come sai, esiste un’antica e diffusa tradizione casearia basata sul latte ovino. Per produrre il latte, occorre che la pecora generi un agnello. Ed ecco che, in un certo senso, la carne di quest’ultimo è diventata – storicamente – una sorta di “scarto” della fiorente industria dei formaggi pecorini.

Certo, con le dovute eccezioni, gli allevatori illuminati e le due Igp nazionali: quella del Centro Italia e quella di Sardegna.

E riconoscendo comunque la validità di questa logica di economia circolare per cui, anche della produzione ovina, dalla lana agli arrosticini non si butta via nulla.

Razze da carne

Agnello gallese

Ci sono però altri paesi dove si allevano agnelli per mangiarli, senza preoccuparsi troppo di come utilizzare il latte che avanza. Sono gli allevatori di queste zone che, nei secoli, hanno selezionato razze da carne, anziché – appunto – da latte.

Non è un mistero, naturalmente, che le tecniche si siano nel tempo raffinate a seconda del prodotto finale che l’allevatore voleva ottenere.

È così per i suini, con razze diverse a seconda che le bestie siano destinate alla produzione di salumi o di carne. Per i polli “da tavola” e le galline ovaiole. Per le mucche da mungere e i bovini da cui ricavare costate e filetti.

Se parliamo di agnelli, uno degli esempi più interessanti è quello del Galles (Igp), che ti cito perché lì ci sono stata. E te lo giuro: i verdi e sconfinati pascoli che caratterizzano il Sudovest della Gran Bretagna fanno letteralmente impallidire le alture sarde spazzate dal vento.

Così, gli agnelli gallesi grass fed, oltre ad appartenere alla giusta stirpe, crescono nutrendosi di erba e trifoglio seminati dagli stessi allevatori. Con il sole o con la pioggia, con il freddo o con il caldo, non vedono mai una stalla e hanno contatti quasi esclusivamente con i cani pastore, addestrati a riconoscere sul nascere qualsiasi problema e a comunicare al padrone se, per esempio, un parto sta andando storto o una bestia si è ammalata.

Insomma, il paradiso degli agnelli. Come ce ne sono molti altri nel mondo, dall’Irlanda alla Nuova Zelanda passando per Normandia e Bretagna da cui arrivano i sapidi agnelli presalé (Aoc, ovvero Dop): il termine significa “prato salato”, perché gli animali brucano erbe salmastre in prati coperti quotidianamente dalle maree.

La differenza? C’è

Agnello gallese

Il circolo virtuoso che, soprattutto all’estero, lega razza, territorio e know how dell’allevatore, regala alle carni “straniere” caratteristiche peculiari.

Rispetto ai prodotti di casa nostra, le differenze sono abbastanza evidenti.

Il gusto diventa rotondo, pieno. Il grasso, abbondante come si confà alle migliori carni “da tavola”, è dolce e garantisce succulenza e tenerezza. L’odore è fresco e gradevole. Il colore è un bel rosso chiaro, vivace e invitante. Per finire con il taglio che, nelle bestie macellate in loco, regala costolette alte e succose, arrosti, arrotolati e cosciotti maestosi.

In conclusione: se, come è detto, è giusto conoscere, sperimentare e valorizzare le migliori produzioni italiane, il consiglio è di informarti sulla provenienza e controllare l’etichetta, anche di quello che trovi al super.

E se leggi, per esempio: nato, allevato e macellato in Regno Unito… beh, non lasciartelo sfuggire. Per una nuova lamb experience.