Perché fate i panettoni crudi?

Cari pasticceri e grandi lievitisti, i vostri panettoni sono spesso crudi, vuoi che vi state misurando con l'Everest dei lievitati, vuoi perché fate i furbetti.

Perché fate i panettoni crudi?

Permettete una domanda: ma perché fate i panettoni crudi? Mi rivolgo a voi, che fate i panettoni, quindi praticamente a tutti, perché oggi non v’è artigiano o operatore del food che non abbia pensato di cimentarsi con il grande lievitato per eccellenza: pasticcieri e lievitisti, panettieri e panificatori (non è la stessa cosa), chef stellati e vincitori di Masterchef, pizzaioli e sommelier, amatori che curano il proprio lievito naturale da anni e hipster dell’ultim’ora. Il panettone lo vogliono fare tutti, e i risultati si vedono.

Perché non è semplice improvvisarsi lievitisti e gestire un procedimento lungo e complesso che deve essere seguito con attenzione in ogni suo passaggio, temperature e tempi, ingredienti e movimenti. Tra l’altro il panettone, e ancora di più il pandoro che sta diventando la nuova sfida hype, è una di quelle preparazioni che ha un pessimo rapporto costi benefici: intendiamoci io lo adoro, lo adoriamo tutti, però tolte le eccellenze, un panettone di medio livello sarà sempre meno appetibile di una pastiera o di una sacher qualsiasi, e dite che no.

Ma torniamo a noi, al crudo. Prima del panel di assaggio che ha portato alla classifica dei migliori panettoni artigianali d’Italia, Chiara (Cavalleris, direttora del sito che state leggendo) me lo aveva detto, anche un po’ per rassicurarmi sul picco glicemico e le arterie occluse che ci attendevano: guarda che una buona parte non li assaggeremo proprio perché palesemente crudi. Non ci volevo credere: capisco che un panettone possa venire meno buono, dicevo, mi immagino prodotti con le sospensioni di qualità non eccelsa, meno burrosi dell’idealtipo, non filanti ma con alveoli irregolari, al limite anche con qualche difetto di lievitazione – se ne vedono tanti, anche sparati su Instagram per vantarsi, che non riempiono lo stampo fino ai bordi. Capisco tutto, dicevo, ma non mi sembra possibile che un panettone venga crudo. E invece.

Fate conto che ne avevamo 70, già selezionati a monte nel senso che agli artigiani li chiediamo noi, andando a caccia anche delle giovani promesse e delle perle nascoste. Di questi circa una decina non li abbiamo neanche aperti per vari motivi, il principale la scadenza troppo lunga (sintomo di non artigianalità, il perché lo vediamo meglio ancora dopo, dato che ha a che fare col nostro discorso). Dei restanti, per circa un terzo non li abbiamo neanche assaggiati, perché dopo il taglio presentavano difetti talmente evidenti che mangiarne un pezzo sarebbe stato inutile, se non pericoloso. Perché, appunto, nove volte su dieci il difetto era lo stesso: erano crudi.

Crudi, in che senso? Avevo chiesto qualche giorno prima a Chiara. E lei, sarcastica: “Eh boh, non cotti? Non so come altro dirtelo: crudi”. Ma serio. Certo anche lì con varie tipologie: si va dalla striscia ammassata sotto crosta, che si presenta diversa innanzitutto al colore e poi al tatto, fino a delle parti all’interno talmente umide che a schiacciarla, la mollica non solo non tornava indietro (è una prova che si fa, tra i vari parametri da testare) ma assumeva una consistenza di impasto crudo, appunto. E ovviamente con vari livelli di gravità: da quello così bagnato e pesante che non si riesce quasi a tagliare (“Lo sentite? È gnucco!”, diceva in continuazione la capo panel Stefania Pompele – a Napoli diciamo ’nchiummuso, ammazzaruto) a quelli con tendenze all’umido molto marcate ma sotto la soglia di tolleranza, che addirittura sono entrati in classifica se pur nelle posizioni più basse.

Ma insomma, perché escono crudi sti panettoni? Lo chiederei a voi: io li mangio, ma non li faccio (sono strano, lo so). Però intanto, ho cercato di darmi una spiegazione. Facendomi aiutare anche da amici e colleghi: innanzitutto quelli del panel – oltre alle già citate Cavalleris e Pompele, Rossella Neri e Massimo De Marco (non siamo parenti) – ma anche lievitisti e artigiani. Diciamo che i motivi per cui un panettone è crudo possono dividersi in due grandi categorie: lo sbaglio tecnico e l’errore strategico, cioè l’eccesso di un carattere voluto.

I panettoni crudi per errore tecnico

Panettone crudo

Gli errori che portano a un panettone crudo sono di vario tipo: le cause possono trovarsi nella lievitazione come nella cottura, nella formatura come nella presenza di glassa o copertura (che se da un lato tiene umida la cosa e quindi consente un maggiore sviluppo, dall’altro può bloccare la penetrazione del calore). E infatti Alessandro Trezzi, il nostro nerd della pizza (ma anche dei pane e dei lievitati in generale) mi dice come prima cosa: “Ma stiamo parlando dei glassati ovviamente”. Eh no, purtroppo anche molti panettoni Milano, cioè quelli scarpati, presentavano il difetto. Anche Trezzi non ci voleva credere: “Per me tirare fuori un panettone classico crudo è una cosa assurda. Poi certo, se la lievitazione non è stata fatta correttamente, sarà crudo sotto, come capita al pane”. Ma in realtà questo difetto, stranamente, è poco ricorrente se non del tutto assente. 

Secondo P.M. – un lievitista e insegnante che preferisce restare anonimo, e che comunque non ha participato alla nostra gara né ha altri interessi in conflitto – il problema è soprattutto nella cottura: “La lievitazione c’entra poco. Un panettone deve raggiungere i 94 gradi al cuore per dirsi completamente cotto”. La misurazione si fa con un termometro a sonda, tirando fuori un prodotto a campione dal forno. “È ovvio che se resti appena di uno o due gradi sotto, possono uscire dei pezzi crudi”.

L’errore può derivare dal fatto che si prende un campione non indicativo per la misurazione. Dice Trezzi: “Magari non tutti hanno i forni adeguati, ideali sono i rotativi perché distribuiscono il calore in maniera uniforme, soprattutto per grosse infornate”. L.N. cuoce a 192 gradi (sì, così preciso) nel forno classico, e a 150-160 nel rotor: “Anche lì, se sei giusto con i tempi ma sbagli anche di poco la temperatura, il risultato si vede”.

Un’altra cosa che notavamo era che la parte cruda era quella subito dopo la crosta, il che è strano, o almeno controintuitivo: se infatti siete abituati a pensare al pane, la zona superiore è quella che indubbiamente viene cotta meglio, e di solito anche la più alveolata. Anche al dolce natalizio può accadere di avere più buchi nella parte superiore, ma questo è un rischio, perché il panettone a differenza del pane non forma, a fine cottura, una crosta rigida che faccia da impalcatura, e quindi tende a collassare su sé stesso, quasi come un soufflé. Questo è il motivo per cui i lievitati da ricorrenza (anche le colombe) vengono subito infilzati nella parte bassa, e messi a raffreddare capovolti. “Se questa operazione non viene fatta in tempo”, dice L.N, “e può capitare con quantità grosse, la parte superiore ha un leggere cedimento, tende a schiacciarsi e a creare quella striscia cruda che hai notato. È per questo che è consigliabile dotarsi di teglie che si capovolgono in automatico, all’uscita dal forno”.

Secondo Trezzi infine c’è anche un problema di sciatteria nei produttori: “Si fanno produzioni ampie, gli ingredienti costano e chi fa i panettoni ha poca voglia di stare lì a fare esperimenti, tanto ormai la gente è abituata a vedere ste robe crude, siamo italiani ce ne freghiamo di cosa pensa il cliente”. Insomma non un difetto voluto ma neanche un errore tecnico. Non è trascurabile questo aspetto, e la conferma l’abbiamo purtroppo avuta in più di una occasione, quest’anno come gli anni scorsi, quando abbiamo riscontrato notevoli differenze tra i prodotti mandati per il giudizio del panel e quelli acquistati nei vari corner che ormai molti artigiani di fama hanno in giro per l’Italia. Non è bello, non si fa.

I panettoni crudi per errore strategico

Panettone crudo

L’intenzione dell’artigiano, la scelta stilistica o commerciale, ci portano diritti all’altra categoria: la caratteristica voluta. Un momento: possibile che ci sia che fa il panettone crudo apposta? Ovviamente no, però possono esserci caratteri che, portati all’estremo o gestiti con un controllo un filo meno che rigoroso, si traducono nell’effetto crudo.

Da quando, e non è tanto, il panettone artigianale è tornato in auge, si è verificata anche la tendenza della de-regionalizzazione: prima appannaggio dei pasticcieri milanesi con qualche puntata a Torino (il classico Galup in stampo basso e largo, glassato alle mandorle, è di origine piemontese), ora il panettone è diventato un cimento per tutti. E spesso in vari concorsi è capitato che i maestri del sud superassero i colleghi settentrionali. Una differenza di origine che si è tradotta anche in una differenza di stile: con il lucano Tiri in testa, i lievitisti meridionali spingono sulla burrosità, sull’alveolo irregolare, sull’umidità, sul cremoso. E il rischio di disastro è dietro l’angolo.

Perché ovviamente l’umidità è una caratteristica desiderabile, ma un millimetro più in là c’è la crudezza. Poi c’è anche una questione contingente: è possibile che siano sbilanciati più sull’appiccicoso che sull’asciutto i panettoni che vengono mandati ai panel, perché i produttori temono che, considerati i tempi della spedizione e dell’assaggio, il prodotto diventi poi troppo secco, e quindi magari provano a farlo apposta più umido.

Infine, c’è la questione degli enzimi. “Oggi ce li mettono quasi tutti”, mi dice N.L., “e non te lo diranno mai, perché per legge non è obbligatorio indicarli in etichetta, e a 85 gradi scompaiono quindi non sono rilevabili da nessuna analisi. Ma sono un trucco”. Un trucco per far durare di più i grandi lievitati, ma un intervento che rende il prodotto più spostato sull’industriale che sull’artigianale. Tant’è che, come accennavo, i panettoni che avevano una scadenza più lunga di due mesi li abbiamo messi fuori concorso a priori, perché segno che utilizzavano enzimi o altri aiuti chimici. “Un panettone artigianale va mangiato entro 45 giorni, e comunque già quando ti avvicini ai 30 è più asciutto, è meno buono”.

Gli enzimi, in questo caso amilasi maltogeniche, rallentano il processo di perdita dell’umidità e raffermamento del pane o del panettone (tecnicamente, ciò che avviene si chiama retrogradazione degli amidi). Però, e qui veniamo a noi, vanno gestiti in maniera oculata all’interno del processo. Spiega N.L.: “Un tecnologo alimentare con cui ho lavorato diceva che la temperatura deve essere alzata di circa due o tre gradi. Se un panettone con impasto normale esce a 94 gradi all’interno, quello con gli enzimi bisogna portarlo almeno a 97, altrimenti resta crudo. Io non li uso, ma dico: vogliamo usarli? Ok, però almeno impariamo a utilizzarli, facciamolo bene”.

Anche Trezzi concorda: “C’è la tendenza ad aumentare lo zucchero e il burro, a lavorare su impasti molto più umidi, come fanno anche molti pizzaioli di ultima generazione: cambia l’umidità ma il prodotto rimane uguale, se non lo testi poi non è cotto. Oggi tutti cambiano le ricette ma non le tarano con nuovi tempi di cottura e nuova strumentazione. E succedono i disastri”.

Insomma che sia per inseguire uno stile voluto o per prendere scorciatoie poco oneste, la crudité è sempre in agguato. Ma poi, può essere pure che io abbia detto un cofano di sciocchezze. E allora torno a chiederlo a voi: mi spiegate perché diavolo fate i panettoni crudi?