Storia delle spezie: viaggio dai Tropici alle nostre tavole

Storia delle spezie: dal pepe raccontato da Plinio il Vecchio ai mix delle nostre dispense: origini e aneddoti sul bene di lusso più antico della gastronomia.

Storia delle spezie: viaggio dai Tropici alle nostre tavole

A cercare di raccontare la storia delle spezie non si sa da dove cominciare. Perché le usavano i romani, prima di loro i greci, prima di loro gli egiziani, prima di loro… Sì, non c’è cucina che non abbia attinto a piene mani a queste sostanze di cui è difficile persino la definizione.

Ci provo con l’aiuto di una super esperta, Francesca Giorgetti, creatrice di Tuttelespeziedelmondo.it: shop online ma, soprattutto, laboratorio (a Milano) dove riceve, lavora, miscela, confeziona davvero tutte le spezie del mondo, o quasi.

Una pregiata rarità

zafferano

 

Vediamo dunque di definire cos’è una spezia. Che, per cominciare, si dovrebbe dire “spezie” perché la parola, indeclinabile, deriva dal latino species, nel significato di ‘merce rara’, pregiata e speciale. Così erano chiamati questa categoria di prodotti sui registri doganali dell’antica Alessandria d’Egitto per identificarli come beni di lusso.

Che quello erano, sono stati per secoli e, in alcuni casi, sono ancora ai giorni nostri: basta pensare al prezzo elevato dei migliori zafferani o baccelli di vaniglia.

Spezie, erbe o aromi?

carvi

Ieri come oggi, il termine identifica non tanto la natura quanto la provenienza di questi ingredienti: le spezie per lo più giungono da lontano, ricavate da foglie, semi, frutti, cortecce, radici, rizomi e altre parti di piante tropicali.

E conservano il loro carattere esotico anche se molte si sono adattate a climi e terroir nostrani. È il caso, per esempio, del già citato zafferano, ma anche di molti peperoncini.

Dunque, per dare una prima definizione, potremmo dire che è l’origine a fare la differenza con le erbe e gli aromi più propriamente mediterranei ed europei.

Sebbene vi siano alcune spezie tipiche delle nostre terre come il carvi, o cumino dei prati, coltivato dalle Alpi all’Africa Nord Orientale. O la paprica, prodotto tipico ungherese ricavato da un peperone importato dai turchi, che lo avevano scovato in India, dove era arrivato dalle Americhe… Ma di questo genere di viaggi ti parlo tra poco.

Tornando a quel che si intende per spezie, in genere si pensa a questi prodotti come a un qualcosa di essiccato.

Questo si può spiegare forse con il fatto che solo in questa forma potevano viaggiare dai Tropici fino al Vecchio Mondo.

Tant’è che oggi, che le distanze si sono virtualmente azzerate e le coltivazioni si sono diffuse, si trovano con facilità anche nei nostri mercati zenzero, curcuma o coriandolo freschi.

Fermo restando che in alcune tradizioni culinarie, come quella thailandese, frutti, erbe, rizomi e affini – che noi conosciamo sotto forma di spezie secche – sono impiegati freschi, tritati, lavorati al mortaio e miscelati in paste aromatiche.

Le spezie hanno una storia o è la storia che è stata fatta dalle spezie?

Quesito marzulliano, vero? “In realtà, sono due facce della stessa medaglia”, osserva Giorgetti. “Le spezie hanno creato scambi e cultura. Hanno stimolato viaggi a Est in cerca di un bene economico prezioso, ma ci hanno anche spinto a Ovest portandoci alla scoperta del Nuovo Mondo”.

Grazie spezie, grazie. Senza di voi chissà quando avremmo avuto le patate, i fagioli, la polenta, la pummarola…

Tutti pazzi per il pepe

Naturalmente, le spezie esistevano già molto prima dell’epoca delle grandi esplorazioni. Plinio il Vecchio, nel primo secolo dopo Cristo, raccontava di come l’impero spendesse un sacco di soldi per un genere voluttuario come il pepe, che giungeva a Roma dall’Oriente e aveva fatto impazzire i gourmand del passato sin dai tempi della Grecia classica.

Il nome stesso “pepe” (“piper” latino, “pepper” inglese”, “pfeffer” tedesco) deriva addirittura dal sanscrito “pippali”, che ancora oggi identifica un pepe lungo indonesiano.

Oggi, il pepe è forse la spezia più diffusa al mondo: sia nella versione “vero”, quindi i vari piper nero, bianco, verde, lungo o rotondo, che “finto” come le tante qualità di bacche e frutti denominate di volta in volta secondo gli esotici luoghi di origine: il nepalese di Timut e quello del Bhutan, entrambi parenti del cinese di Sichuan, l’australiano di Tasmania o il garofanato di Jamaica, chiamato anche pimento.

Un intreccio piccante

pepe

Segue il pepe in popolarità il peperoncino, che si può usare come perfetto paradigma dell’intreccio fra storia e spezie.

“La cucina più speziata al mondo è forse quella indiana”, racconta Giorgetti. “La più piccante è nella zona di Goa. Dove il peperoncino, che si usa a piene mani, non è affatto autoctono ma è arrivato dal Messico, suo paese d’origine, nel Cinquecento insieme ai colonizzatori portoghesi”.

Per spiegare la portata, non solo gastronomica, di quell’evento lontano basti pensare che oggi, in Kerala, ha sede lo Spice Board of India, organo del Ministero del commercio che regolamenta e tutela ogni aspetto di questa industria di vitale importanza per l’economia del paese, con tanto di Borsa per quotazioni e scambi.

Un falso storico

Del passato coloniale che accomuna India e peperoncino si trovano ancora tracce nel vindaloo, pietanza tipica che è l’evoluzione di una tecnica adottata dai navigatori portoghesi per conservare la carne, in particolare il maiale, durante i viaggi in mare: perché si mantenesse commestibile a lungo, era messa sott’aceto e abbondantemente speziata.

È vero, infatti, che la maggior parte delle spezie – e in particolare proprio le più forti, come il peperoncino – contengono principi attivi dalle funzionalità antibatteriche e antiossidanti, che ne determinano l’efficacia nel prevenire o limitare il deterioramento degli ingredienti cui sono aggiunte.

Falso, invece, che fossero usate per “mascherare” materie prime di scarsa freschezza, al limite del marcio e perciò maleodoranti. “Al contrario, dal tardo Medioevo e per tutto il Rinascimento usare le spezie era un modo per ostentare ricchezza”.

Offrire nei banchetti piatti ricchi di spezie era considerato un vanto, al pari di sfoggiare nelle dimore nobiliari dipinti e affreschi realizzati con pigmenti rari come il lapislazzulo, da cui si otteneva il raffinato blu oltremare.

Sapori e colori

Storicamente, poi, è capitato spesso che le stesse parti delle piante, usate per insaporire le pietanze, fossero impiegate per dipingere o per tingere tessuti, pellame e altri manufatti. E viceversa.

Celebre la leggenda del risotto alla milanese nato, pare, per l’azzardo di un artigiano. Al lavoro nel cantiere del Duomo, suggerì a un cuoco, ingaggiato per un matrimonio, di aggiungere al riso la polvere dorata che stava usando per colorare le vetrate della cattedrale meneghina. E voilà, il risotto giallo è servito.

Altra sostanza versatile è l’annatto, o achiote, diffuso nella cucina sudamericana e delle Filippine per il gusto fresco e pungente e per il colore giallo intenso donato dai semi (in partenza rossicci), ma impiegato da sempre anche per colorare le stoffe.

Oggi, questo prodotto così particolare, che gli indigeni dell’Amazzonia usavano persino come repellente per gli insetti e antidoto ad alcune sostanze velenose, è quasi sempre relegato al ruolo di mero additivo, colorante alimentare per burri pallidi, margarine scialbe, formaggi bianchicci, pesci affumicati dal colorito smorto, snack in busta cerei, ghiaccioli sbiaditi.

Al pari di molte altre spezie ormai comuni, che compriamo al super e usiamo distrattamente in cucina, l’annatto ha perso per noi l’allure di “merce rara”. E sulle etichette si è trasformato in una fredda sigla, E160b. Che fine ingloriosa, dopo millenni di storia!

Speziato, ma gentile

chimichurri

La porta delle spezie per il nostro continente è stata Venezia, per secoli anello di congiunzione fra Oriente e Occidente. Eppure, nonostante il fiorente mercato approdasse sui nostri lidi, la cucina italiana nel tempo le ha un po’ perse e, come osserva Giorgetti, oltre agli onnipresenti pepe e peperoncino per tradizione useremmo solo cannella, chiodi di garofano, noce moscata e poco altro.

C’è da osservare che per noi l’aggettivo “speziato” assume connotazioni più sfaccettate e in un certo senso più gentili di quel che accade con l’inglese “spicy”, che indica cibi generalmente piccanti. E potenzialmente può aprirci, e ci sta aprendo, un mondo.

Le moderne contaminazioni ci stanno insegnando l’esistenza di innumerevoli qualità e le loro infinite combinazioni.

Nelle nostre dispense si trova ormai comunemente il curry e iniziamo a prendere confidenza con miscele come il chimichurri argentino, il ras hel hanout nordafricano, le cinque spezie cinesi e persino il nanami togarashi giapponese.

Così, il viaggio delle spezie fa tappa ogni giorno di più nelle nostre cucine. Bella storia!