Milano | Col diavolo al Pont de Ferr

(disclaimer: questo post e’ stato scritto a quattro mani con titty_marie_natalie_gabriela (ci tiene alla precisione); ai nullafacenti un premio se indovinano chi ha scritto cosa … e comunque: scusatela).

“Le liste non te le lasciano neanche se gli dici … (ehm) … te la do”, sentenzia il diavolo. Usciamo con le liste sotto il braccio, belle, grandi e gialle. Font a prova di miope. Usciamo dopo tre ore di tartaro acustico e di alterne sensazioni, ma con la soddisfazione di aver intuito finalmente il dolce. E con un parcheggio manualistico dentro un garage convenzionato. Lo chef Matias Perdomo … me lo hanno consigliato, ho recalcitrato ma poi sono andato, un po’ per sconfessare il mio “metro mito campione” che nel suo blog (nel suo blo’) gli ha arrotato una scarsa sufficienza piena. Un po’ per bassa curiosità, un po’ per provare a smitizzare il canone inverso dei navigli (di Milano) e, soprattutto, per conoscere il diavolo.

Rumore esagerato e pareti da pizzeria. Siamo sui navigli (di Milano) … Tavolo di legno scuro, spoglio, essenziale, tovaglietta di carta e brusio degli avventori che man mano aumenta. Una trattoria. Una di quelle in cui vai per sfondarti di vino, spiluccare quel che c’è e parlare ad alta voce, non tanto perché altrimenti non ti si sente, ma perché è liberatorio. Poi arrivano le liste e capisci che sei lì per ben altro.

Omaggi di benvenuto della cucina che alternano un prosciutto e melone (non utilissimo) a un crostino di parmigiano con crema di tonno (persistentissimo) a un cucchiaino di legno con foie-gras al fico (equilibratissimo). Gran cesta di pane e grissini.

E un rosso “scelto” con fatica, a occhi bassi, squadrettando i ben piu’ golosi Radikon, Podversic, Kante e compagnia cantante. Anche un Movia avrei accettato nella storia. Ma niente da fare, secca la scelta sul Ciliegiolo, fratello di Carneade e imbianchino di Don Abbondio. Nulla di eccezionale, ma con un nome meraviglioso. Ciliegiolo. Non si può essere tristi quando si dice “ciliegiolo”: lo ordini, è subito allegria.

All’arrivo dei piatti resto senza parole, per almeno quattro secondi buoni. C’è dolcezza. E nulla disarma di più della dolcezza. Intimidisce.

Certo, se ordino il foie gras con confettura di pomodoro dovrei aspettarmela. Ma anche il pan brioche è dolce, peccato: amo i contrasti. Per fortuna la nostra vicina di tavolo indossa stivali adorni di catene e sembra bacchettare il partner. “Assertiva”. Così la confettura di pomodoro scendeggiù molto meglio. “Una cravatta così scura su una camicia di lino anche no”. E anche l’agnello (ottimo, ma perché questa punta di dolce? Genio, sara’ mica il caramello?) scompare magicamente dal piatto. Potenza delle parole e della perfidia, in fondo dal diavolo che aspetti?

Il pezzo forte resta il dolce: semplicemente geniale. Tornerei solo per quello. No, anche per il resto, però a inizio settimana, sperando ci sia meno rumore.

Il sigaro di cioccolato piangerebbe banalita’ ma il tocco di Montecristo e fumo in domopak un po’ meno. Pretenzioso? Yep, e allora ?

Meglio il “filetto di sasso”? Non lo so, buona l’idea, bella l’estetica, ma mi si perde la solita punta che sempre si cerca. C’e’ in effetti, ma e’ una acciuga distribuita tutta concentrata. Basterebbe poco, davvero poco.

Tanto vince facile il mio sashimi di bue, acidissimo e ingraziante con le sue prugne umeboshi e la salsetta. E chiudiamola qui.

Perche’ “c’e’ molto di non detto e di non chiesto nel valutare una cucina”.

E si torna si … ma solo dopo ablazione del tartaro.

[Crediti | Link: Appunti digola, immagini: Pocketfork, Globoblò, Riccidimare]