Racconti horror | Quando lavorare al ristorante è un incubo

Un mese dopo la bocciatura a scuola, niente di impegnativo. O il tempo necessario a raggranellare un gruzzolo e catapultarsi in vacanza, oppure in quel bar a Londra giusto per mantenersi. A meno di non essere riccastri conclamati, anche a voi prima o poi è toccato lavorare in un locale.

Orsù, in onore a questa nazione di baristi, camerieri, lavapiatti e aiutocuochi, come han fatto gli americani, condividiamo anche noi i racconti horror sul lavoro al ristorante. Boss schizzati, colleghi improbabili, clienti psicotici? O anche solo qualcosa che riguarda l’uso improrio dei coltelli? Raccontateci cos’hanno visto i vostri occhi di veramente indimenticabile.

Nel frattempo scaldiamo l’atmosfera con qualche racconto.

FILETTO AL SANGUE.
A inizio anni ’90 ho lavorato per qualche mese nella cucina di un pub elegante: menù curato, servizio professionale e prezzi più alti della concorrenza. A parte fare le pulizie, preparavo i panini, alcuni antipasti e una buona mousse al cioccolato. Un giorno, a pranzo, il cameriere chiede un filetto al carpaccio con rucola e scaglie di parmigiano. Come mi avevano insegnato a fare, prendo il pezzo di carne dal congelatore e lo metto nell’affettatrice. Dovevo tagliare delle fette sottili che si sarebbero scongelate durante la preparazione, poi condirle e aggiungere parmigiano e rucola. Ma poco dopo, oltre al filetto, si è affettato il polpastrello del mio dito, con urla, spavento e una bella dose di sangue. L’unico a non perdere la calma è stato lo chef, uno della scuola “non si butta via niente”. Che sfregando le dita sulla carne macchiata di sangue per uniformare il colore rosso, ha completato il piatto mandandolo regolarmente in sala. Dopo quella volta, non ho più mangiato un filetto al carpaccio in vita mia. In compenso il dito, pochi minuti più tardi, aveva già smesso di sanguinare.

LO CHEF RICCARDO.
A 15 anni (15 anni fa) ho lavorato in un forno che serviva ristoranti di lusso facendo tutto quello che potete immaginare: pulizie, cottura dei dolci, preparazione della cena per il personale. Uno dei rituali iniziatici imposto dallo chef Riccardo era un passaggio nel forno, un bestione a piano di cottura rotante. Quando si raffreddava verso la fine del servizio, lui voleva che entrassi, se non l’avessi fatto la mia paga sarebbe stata sospesa, minacciava lo chef .

Gli piaceva anche farmi mischiare candeggina e detersivo per le stoviglie dentro al piccolo secchio dello straccio che tenevamo in magazzino. Una volta a contatto, le due sostanze possono sprigionare vapori tossici pericolosi per la salute.

Tenermi chiuso nello spogliatoio per la maggior parte del turno era un’altra delle sue sevizie preferite.

Il lavaggio dei piatti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Lo chef mi ha detto: “Ho riempito il lavandino di schiuma. C’è una pila di piatti dentro, per tirarla fuori immergi le mani fino in fondo al lavandino e tira su con forza”. L’ho fatto, scoprendo che lo chef mi aveva fregato ancora. Invece di una pila di piatti nel lavandino c’erano solo coltelli da cucina. Non ci ho visto più. Ho cercato di strangolarlo con le mani sanguinanti urlando a squarciagola “HO L’AIDS, HO L’AIDS!” Lo chef ha lasciato il forno quella notte stessa e per quanto ne sappia non è più tornato. Una volta guarite le mani sono tornato a lavorare nella cucina finalmente tranquilla, dove le persone non cercavano più di uccidersi a vicenda. Ma non riesco a dimenticare il sadismo dello chef Riccardo.

CAGNE FRIGIDE.
Avevo 23 anni, e per restare qualche mese a Londra ho lavorato come cameriera nella piccola paninoteca di un sobborgo. Il mio capo era un inglese piccoletto, sempre un po’ sudaticcio, con il riporto e le idee poco chiare su come gestire un ristorante. Leccava i cucchiai mentre preparava le salse e infastidiva ogni ragazza del personale che gli capitasse a tiro, chiamandole “cagne frigide” quando quelle, giustamente, si licenziavano in tronco. A ogni turno faceva battute grossolane sulla mia biancheria magari mentre aiutavo i clienti o sistemavo la cucina per il giorno dopo. E spesso, quando lavavo i piatti, mi si metteva vicino con le mani in tasca protese verso il centro, in modo da toccarsi il coso. Dopo due mesi di angherie decido di andarmene. Dovevo aprire io quella mattina, per cui vado in paninoteca e lo trovo nel magazzino che fuma uno spinello. Vicino a lui un materasso. Mi allontano velocemente ma lui si mette la divisa e mi raggiunge. Quando gli chiedo cosa sia successo mi dice che la sua ragazza l’ha buttato fuori di casa, e non avendo altro posto dove andare ha dormito su quel materasso. Si è anche lavato, lui e i suoi vestiti, nello stesso lavandino che usiamo per i piatti e ha messo ad asciugare le mutande nello scolapiatti. Gli comunico che me ne sarei andata per sempre quella mattina stessa, e la sola cosa che dice è: “ma se non abbiamo nemmeno “sco**to”.

[Crediti | Link: Gawker, immagine: Monica Assari]