5 cose che l’industria può fare per recuperare il cibo in eccesso

Un'azienda leader nel recupero di generi alimentare suggerisce cinque vie per recuperare, a livello industriale, le eccedenze alimentari. Se proprio non si può produrre di meno, aggiungiamo noi.

5 cose che l’industria può fare per recuperare il cibo in eccesso

Vista la malparata di inflazione, riduzione del potere d’acquisto, congiuntura economica e conseguente crisi dei consumi, queste festività natalizie ci mettono di fronte al contrasto sempre più stridente tra l’opulenza richiesta dal periodo e l’effettiva capacità degli acquirenti di poterne godere, una discrasia che appare ancora più evidente quando si parla di cibo.

Vetrine debordanti, offerte speciali per materie prime lussuose ed esotiche, trionfi di maionese e gelatina che ormai hanno fatto il giro e da fossili gastronomici sono diventati effigi lipidiche della nostalgia di un tempo in cui un’abbuffata era puro edonismo e non impegno sociale e politico.

Da quei tempi andati una cosa è sicuramente cambiata, ed è la capacità di spesa, il che rende quindi lecito pensare che buona parte di quel ben di Dio sarà destinata ad essere sprecata. L’ideale sarebbe relegare certe pompose esibizioni al folklore e agire con logica producendo semplicemente di meno, ma anche delle politiche per evitare lo spreco gestendo le eccedenze possono essere d’aiuto. È l’intento di Regardia, azienda piemontese che si occupa della produzione di mangimi animali in economia circolare, recuperando ex-prodotti alimentari, che ha lanciato l’iniziativa “Cinque soluzioni per non sprecare”.

Cinque modi per ridare valore alle eccedenze alimentari

panettoni supermercato 2025

La necessità di un intervento strutturato nasce dal fatto che, dopo il picco di acquisti del periodo festivo, una porzione di prodotti confezionati, dolci natalizi per primi, resta invenduta: una situazione che genera costi aggiuntivi e sprechi significativi. Secondo Regardia, solo nel settore dolciario, i prodotti «perfettamente idonei al consumo» che non vengono venduti possono produrre costi (legati a smaltimento, logistica, redistribuzione e sconti) che raggiungono l’1,8% del fatturato. A questo si sommano le inefficienze e i capitali fermi «che pesano sulla redditività complessiva», oltre all’impatto ambientale legato al consumo di risorse e alla gestione dei rifiuti.

Paolo Fabbricatore, Group Ceo di Regardia, ha dichiarato: “Oggi il vero tema non è più se gestire l’invenduto, ma come farlo in modo strategico. Ogni prodotto fermo in magazzino rappresenta un costo finanziario, un rischio operativo e una perdita di valore”. Prosegue Fabbricatore: “Approcci strutturati permettono di ribaltare questa logica: trasformare l’eccedenza in opportunità concreta genera benefici economici e ambientali lungo tutta la filiera. Ridurre gli sprechi significa intervenire direttamente sui margini, sull’efficienza operativa e sulla solidità del business”.

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Il modello di Regardia ha già portato risultati concreti nel recupero dei prodotti alimentari non più idonei alla vendita, trasformandoli in risorse utili, evidenziando che “Grazie a questo modello, più di 165.000 tonnellate all’anno di surplus alimentare e concentrato solubile di frumento vengono mediamente preservate nella filiera dei mangimi evitando lo spreco di risorse ancora valorizzabili. Le eccedenze, anziché essere destinate allo smaltimento, vengono selezionate, trattate e reintrodotte nel ciclo produttivo come materie prime per la mangimistica e come matrici per bioenergie, riducendo il ricorso a risorse vergini e alleggerendo i costi logistici e ambientali dell’invenduto”.

Le cinque vie suggerite per il recupero e la valorizzazione del cibo non venduto sono: le donazioni agli enti benefici (con vantaggi sociali e ambientali, dato che si “riducono sprechi e costi di smaltimento”); la reimmissione sul mercato attraverso canali alternativi come le promozioni o gli outlet, “trasformando i prodotti invenduti in vendite aggiuntive senza intaccare il prezzo pieno”, e la trasformazione in ingredienti secondari o nuovi prodotti.

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Poi l’utilizzo nella mangimistica animale, dove i dolciari invenduti vengono convertiti in ingredienti nutrienti per mangimi, “contribuendo a ridurre i costi delle materie prime e l’impatto ambientale della filiera”; infine, la conversione in bioenergie o compost, come ultima risorsa per gli scarti: “gli scarti non utilizzabili a fini alimentari e non declassabili ad uso zootecnico possono essere destinati a produzione di compost o energia rinnovabile, chiudendo il cerchio della circolarità e riducendo l’impatto ambientale complessivo”.

Ne aggiungiamo una noi: produrre di meno.