Il termine “allevamenti biologici” è sovente accompagnato dalla percezione che gli animali al loro interno possano godere di condizioni di vita nettamente migliori rispetto ai “colleghi” fondamentalmente intrappolati in quella catena dell’orrore che sono i cosiddetti allevamenti intensivi. Una recente inchiesta di Foodwatch, intitolata La sofferenza degli animali nel carrello della spesa, racconta tuttavia una realtà decisamente più difficile da digerire: a prescindere dal tipo di allevamento, infatti, gli animali al loro interno vivono un’esistenza all’insegna delle malattie, delle ferite e del dolore; una lunga tortura dove il “lieto fine”, se così vogliamo definirlo, coincide con il momento della macellazione.
Malattie, fratture e ferite aperte: la realtà degli allevamenti
Il report redatto da Foodwatch ha perso in esame numerosi studi condotti in Germania e altri Paesi europei e valutato cinque tipi di allevamento: biologico, all’aperto (o ruspante, se preferite), al coperto con aria fresca, al coperto con spazio e infine al coperto. Declinazioni diverse con un denominatore comune: la sofferenza animale che sfocia, indipendentemente dalla tipologia di allevamento adottata, in malattie, mastiti, ascessi e fratture.
“Quasi il 40% di tutti i suini nei sistemi di stabulazione convenzionali presentava gravi condizioni di salute, tra cui polmonite, ferite aperte e ascessi” si legge a tal proposito nel rapporto. La performance degli allevamenti biologici, in questo caso, si differenzia di appena qualche punto percentuale: “Questa cifra è solo leggermente migliore per gli animali negli allevamenti biologici: 35%” continua il rapporto.
“Fino al 39% delle mucche da latte soffre di dolorose malattie degli zoccoli. In un caseificio biologico, la mastite (infezione delle mammelle) è stata riscontrata in una vacca su due. Fino al 97% delle galline ovaiole soffre di fratture ossee, sia nelle gabbie convenzionali che nei sistemi biologici”. Insomma, in altre parole la matrice della sofferenza non cambia.
La domanda che sorge spontanea, nel frattempo, non può che riguardare i prodotti alimentari provenienti da queste strutture. “Enormi quantità di uova, latte e carne di questi animali malati finiscono sugli scaffali dei supermercati” si legge ancora nel report “senza un sistema di etichettatura che informi i consumatori sulla salute degli animali che li hanno forniti”.
Foodwatch sottolinea per di più che il sistema abitativo adottato non è un fattore determinante per la salute, quanto “dalle pratiche di gestione dell’allevamento, ovvero da quanto bene o male gli allevatori gestiscono le loro operazioni”. È bene notare, rimanendo in questo contesto, che a oggi non esiste una legge che imponga agli allevatori di mantenere in salute i propri animali.
Il rapporto si conclude con una piccola guida che spiega come tutelare la salute degli animali negli allevamenti, con proposte che spaziano dalla raccolta sistematica di dati per ogni azienda all’introduzione di un indice sanitario realizzato a partire dai dati delle singole aziende agricole.