C’è una crisi produttiva globale di formaggio, e l’Italia è in prima linea

Il formaggio (e il latte prima ancora) è in crisi, e al banco degli imputati siede il solito sospetto. In altre parole: le mucche hanno caldo, ed è un problema.

C’è una crisi produttiva globale di formaggio, e l’Italia è in prima linea

L’equazione è più semplice di quel che sembra, e il clima è l’incognita più significativa. Parliamo di agricoltura e/o zootecnia, o più in generale di quel che la natura crea e l’uomo trasforma, e gli esempi si sprecano: ormai è assodato, tanto per dire, che la vendemmia avvenga in media tra le due settimane e il mese prima, rispetto a cinquant’anni fa. Il formaggio non è esente da questa rivoluzione, ed è un grosso problema. 

Il formaggio è protagonista di una crisi produttiva su scala globale. Un recente articolo del New York Times ha mostrato una serie di dati che mostrano un forte calo della produzione di latte nelle vacche del Bel Paese a causa dell’aumento delle temperature estive. I numeri parlano chiaro: tra il 2022 e il 2024 la produzione di latte italiano è diminuita in media del 17,2% tra marzo e settembre.

La crisi del latte è risolvibile?

latte

I dati sono quelli del CLAL, centro di ricerca sull’industria lattiero-casearia con sede a Modena, ma è bene notare che l’Italia non è l’unico Paese che si trova a che fare con numeri rossi. Uno studio israeliano pubblicato a luglio sulla rivista Science Advances ha calcolato che un solo giorno di caldo estremo può ridurre la produzione di latte fino al 10%, e che il “taglio”, per così definirlo, può indugiare per oltre dieci giorni. 

Il formaggio a latte crudo e la falsa contrapposizione tra libertà e sicurezza Il formaggio a latte crudo e la falsa contrapposizione tra libertà e sicurezza

Non si tratta di una novità, a onore del vero: nel luglio 2023 Coldiretti aveva suonato l’allarme spiegando che il caldo eccessivo stava, per l’appunto, mutilando la produzione di latte. Lo studio di cui sopra ha preso in esame oltre 130 mila mucche per più di un decennio, intervistato più di 300 allevatori e ribadito un legame che si è rafforzato fino a dare corpo a una crisi.

La chiave è la cosiddetta temperatura di bulbo umido, che di fatto combina informazioni tra la temperatura in sé e il livello di umidità nell’aria. Quando questa supera i 26 gradi Celsius la produzione di latte risulta compromessa, e le mucche necessitano di più di una settimana per tornare ai normali livelli di attività. Insomma, c’è una certa saggezza nei luoghi comuni: non è tanto il caldo, è l’umidità. 

Vale poi la pena notare che non è solo il volume a subire una mutazione, ma anche la consistenza del latte stesso: quello “figlio” dello stress da calore caglia più lentamente e impiega più tempo a solidificare. Che fare, dunque? Gli allevatori si affidano a nebulizzatori e ventilatori, raccogliendo risultati modesti e facendo impennare i costi di produzione (e, di conseguenza, il prezzo al consumo).

Adattarsi, in altre parole, è tendenzialmente poco efficace e sempre costoso. Il che ci porta a una domanda pruriginosa e un po’ scontata: se il problema è il cambiamento climatico e conosciamo – da tempo – la sua causa principale, perché continuamo a trascurarla?