L’imposizione dei maxi-dazi sull’importazione di pasta italiana verso gli Stati Uniti è tutt’altro che assodata o definitiva ma, comprensibilmente, sia le aziende direttamente interessate che le istituzioni si sono mosse rapidamente per scongiurare anche solo il rischio di vedersi imposte tariffe di oltre il 100 per cento, che metterebbero seriamente a repentaglio un mercato che vale complessivamente intorno ai 700 milioni di euro l’anno, costringendo i nostri produttori a mettere la loro pasta sugli scaffali della GDO americana a un prezzo più che raddoppiato.
Se da una parte Giorgia Meloni ha incassato il sostegno della Commissione Europea che si è detta “pronta a intervenire”, anche avviando un caso presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), i pastifici coinvolti nell’indagine contro l’ormai famigerato dumping non restano certo a guardare, e stanno agendo per vie legali.
L’inchiesta USA sui grandi pastifici italiani
La controversia è nata da un’indagine tecnica per presunte pratiche di dumping, avviata nell’agosto del 2024 dal Dipartimento del Commercio statunitense su sollecitazione di alcuni produttori di pasta americani: l’inchiesta ha riguardato inizialmente 19 marchi, tra cui Barilla, Garofalo, Rummo e La Molisana, e per la revisione completa dei dati di vendita e dei costi, sono stati scelti come aziende campione Garofalo e La Molisana.
Il rapporto preliminare di inizio settembre ha concluso che i due marchi non sarebbero stati sufficientemente collaborativi, applicando quindi la controversa regola degli “adverse facts available”, secondo cui se le informazioni e i dati forniti durante l’indagine – come i dati di vendita e sui costi – sono giudicati insufficienti o incompleti, al Dipartimento è consentito fissare un margine di dumping elevato, da cui la consistente aliquota preliminare del 91,74 per cento che, sommata al 15 per cento di dazi già in vigore sulle merci europee da luglio, genera il dazio complessivo del 106,74 per cento. Sempre il Dipartimento del Commercio ha poi ipotizzato che questo elevato margine di dumping sia indicativo anche per gli altri produttori del settore.
L’amministratore delegato de La Molisana, Giuseppe Ferro, ha ovviamente contestato le accuse di mancata collaborazione, dichiarando: “abbiamo fornito seicento pagine di documenti”, “e chiesto che venissero a verificare di persona. Nessuno è venuto. Nelle precedenti revisioni il dumping era zero, poi 1,6%. Ora ci accusano del 91, senza alcun fondamento”.
Ma cos’è il dumping?
Il dumping è una pratica commerciale scorretta con la quale i produttori vendono la loro merce sul mercato estero a un prezzo ribassato, spesso al di sotto del costo di produzione, con l’obiettivo specifico di sbaragliare la concorrenza locale: per correggere questo squilibrio, gli stati applicano quindi i cosiddetti “dazi antidumping”, che sono una tassa all’importazione calcolata per riportare il prezzo finale di vendita a un livello considerato più in linea col mercato. Ne abbiamo un esempio recente anche in Europa, come quelli applicati all’importazione di auto elettriche cinesi.
Le reazioni dei pastifici coinvolti
I pastifici colpiti hanno deciso di passare alle vie legali per opporsi alla decisione: La Molisana, pur smentendo le voci su un’apertura di stabilimenti negli USA, ha confermato l’intenzione di “proseguire l’iter legale così come intrapreso”.
Anche Cosimo Rummo, presidente e AD del pastificio di Benevento, ha scelto di impugnare la decisione, definendola “una follia”. Rummo ha sollevato dubbi sul calcolo, specificando che “il dumping è retroattivo di dodici mesi: ci chiedono di pagare anche per il 2025. Vendiamo 454 grammi di pasta a 4,5 euro, dov’è il sottocosto?”. Ha inoltre aggiunto che “non si può applicare lo stesso margine a tutte le aziende» e ha dato mandato ai propri avvocati per reagire legalmente”.
Barilla, sebbene meno esposta grazie ai suoi stabilimenti americani, ha presentato una memoria difensiva e ha definito la misura “penalizzante per l’intero comparto”.