Sei Donald Trump, ne spari diecimila al giorno, ne porti a casa mezza. E poi fai esattamente il contrario. Dal giorno uno il modus operandi del presidente degli Stati Uniti è costantemente caratterizzato da bugie, minacce, dietrofront, dura repressione delle critiche. In una parola: il caos. Esempio calzante sono i famigerati dazi. Siamo ormai abituati al consueto ciclo di annuncio, incremento, rimozione (e ripetere). Il problema è che le conseguenze iniziano a farsi sentire. L’impennata dei prezzi scoraggia l’economia interna, in particolare quella legata ai beni di prima necessità. Fra questi anche il pasto americano per eccellenza: quello al fast food.
Tariffe sì, tariffe no
Appioppare dazi a destra a manca così, come ti gira, è un controsenso in un’economia globale così interconnessa e interdipendente. C’è chi, come il New York Times, definisce le azioni di Trump al pari di quelle di “un bambino di cinque anni che gioca, e si rifiuta di perdere”. O ancora chi, come il giornalista Lawrence O’Donnell, di fronte alle decisioni scellerate semplicemente sostiene quello che molti nel mondo pensano: Trump è il peggior presidente nella storia.
Le azioni e i proclami di Trump sui dazi e non solo assomigliano più a performance che a strategie di senso compiuto. Di sicuro non riflettono l’operato di una persona competente o disinteressata (qualcuno sostiene che Trump usi l’annuncio di tariffe per fare insider trading, a beneficio suo o dei suoi accoliti nel mercato finanziario). Certamente non sembrano frutto di ragionamenti oculati, anzi: spesso sembra che il presidente non sappia neanche cosa stia facendo. Figuriamoci se si pone il problema di dove e chi ste benedette tariffe colpiranno.
L’effetto boomerang
Di sicuro non aveva pensato ai fast food. L’impennata dei prezzi nel mercato domestico USA porta a spendere sempre meno, dal cibo in scatola alle creme viso. Ma sono in calo anche bibite gasate e l’americanissima combo hamburger e patatine. Nell’ultimo trimestre giganti come Coca Cola, Procter & Gamble e McDonald’s hanno registrato un’importante contrazione delle vendite.
Le tariffe doganali colpiscono tutta la filiera, anche nei suoi passaggi più impensati. Materiali per l’imbottigliamento, confezionamento, provenienza di certi ingredienti (banalmente, pomodori dal Messico per il ketchup). Ai dazi poi vanno aggiunte le politiche sull’immigrazione. Chi coltiva, chi raccoglie, chi taglia e impacchetta la carne? Se rimuovi chi è disposto a fare i lavori più umili, chi resta? Direttive di questo tipo hanno un peso non indifferente sul prezzo finale. In breve: l’autarchia costa, e noi in Italia ne sappiamo qualcosa.
In questo panorama incerto, l’attacco è la miglior difesa. Così fast food come Taco Bell, Pizza Hut, KFC adottano la strategia aggressiva del menu a prezzo stracciato, che però funziona fino a un certo punto. Un burrito a 3 dollari magari conviene, mentre mostrano risultati molto più deboli le offerte su pizza premium e bucket di pollo fritto.
La verità è che anche con i prezzi ridotti intere classi di americani non ce la fanno. Intanto l’inflazione galoppa, la Big Beautiful Bill riduce all’osso buoni pasto e assicurazione sanitaria minima, mentre i ricchi pagano sempre meno tasse. Questa è l’America di Trump, con meno fast food ma con tanta fame.