Fritti e infarto sono correlati: lo conferma una ricerca scientifica

Si è sempre saputo, tra le righe, ma ora è davvero ufficiale e inequivocabile: i fritti aumentano il rischio infarto. Ne parla una ricerca medico-scientifica.

Fritti e infarto sono correlati: lo conferma una ricerca scientifica

Dopo il titolo scommetto che penserete “eh, si sa da sempre”. Ora però è una certezza e non più un fatto dato per scontato: fritti e infarto o malattie cardiache in genere sono strettamente correlati e a dirlo è una recente ricerca scientifica che ha fatto uno studio approfondito su pazienti di età media 64 anni.

Sono 150 mila i veterani militari ultrasessantenni sotto osservazione da un team di ricerca guidato da scienziati del Massachusetts Veterans Epidemiology Research and Information Center (MAVERIC), in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital di Boston, la Scuola di Medicina dell’Università Emory e l’Atlanta VA Medical Center. A coordinare tutti, la dottoressa Jacqueline P. Honerlaw, che per 3 anni ha esortato a monitorare le cartelle cliniche dei soggetti.

Gli scienziati hanno ovviamente tenuto conto anche delle altre incidenze che condizionano le possibilità di malattia: fumo, alcol, sovrappeso, educazione, allenamento fisico, sesso. Con questi dati alla mano – che includono fritti casalinghi e di ristorazione – è emerso che nei 3 anni si sono verificati oltre 6700 episodi di coronopatie sui pazienti monitorati.

La chiave di lettura però è ben altra: il fattore di rischio (“odds ratio” nella ricerca originale, ovvero rapporto di probabilità), che se =1 è ininfluente, >1 indica una correlazione più stretta. Di quei 6700 episodi, il fattore di rischio è:

  • 1,02 in soggetti che han consumato fritto 1-3 volte a settimana;
  • 1,20 in pazienti che han consumato fritti fino fritti 4-6 volte a settimana;
  • infine 1,58 in chi consuma fritti tutti i giorni.

Significa che, dati tangibile alla mano, maggiore è il consumo di fritti alla settimana, maggiore è la possibilità di avere malattie cardiache.

Fonte: articolo originale di Clinical Nutrition Journal e scienze.fanpage.it