L’elettore medio repubblicano probabilmente se ne frega dei dazi di Trump. Oppure li applaude, pensando che mettere i bastoni fra le ruote all’interconnessa e fitta rete del commercio globale sia un’idea geniale, che renderà l’America “Great Again”. A volte però l’elettore medio è costretto a ricredersi, a sue spese. Accade al supermercato, dove i dazi a metalli come alluminio e acciaio aumentano i costi dei beni più impensabili, ad esempio i cibi in lattina. A dimostrazione che il cibo non è solo cibo, ma tutta la sua filiera.
Una lattina più cara
Tante chiacchiere, pochi fatti. Questa almeno è la sensazione che serpeggia negli Stati Uniti, dove il neo eletto Donald Trump aveva assicurato ribasso dei prezzi, zero guerre, ordine e disciplina. Naturalmente non è successo nulla di tutto questo, anzi si può dire che la situazione sia precipitata. Per ora a bruciare di più sono proprio le famigerate tariffe, che rischiano di aumentare esponenzialmente i prezzi dei beni di prima necessità. Ovvero, il cibo.
Dopo la carestia di uova, adesso c’è un nuovo spauracchio che riguarda tutto ciò che arriva dentro una lattina. Tonno, legumi, zuppe, carne in scatola, avete presente. Dal 4 giugno infatti sono entrati in vigore dazi del 50% su acciaio e alluminio che rischiano seriamente di compromettere la filiera. Gli analisti prevedono un aumento del 15% sul prezzo dei prodotti in scatola. Proprio quelli considerati più economici e duraturi, sul cui consumo si basa molta dell’alimentazione dei più poveri.
Parke Wilde, economista del cibo presso la Tufts University conviene che la situazione possa “peggiorare sostanzialmente” nel corso dei prossimi due anni. Gina Plata-Nino, presidente di Frac (Food Research and Action Center) ha notizie tutt’altro che confortanti. “Vedremo un aumento netto di insicurezza alimentare, instabilità economica e persone senzatetto, con famiglie costrette a scegliere se pagare per il cibo, le bollette, l’affitto, la macchina o altre spese essenziali”.
L’America che rischia la fame
Purtroppo il punto non sono soltanto le tariffe. Perché con molta probabilità sta per essere drasticamente ridotto un altro salvavita per gli individui sotto la soglia di povertà. I buoni spesa o Snap (Supplemental Nutrition Assistance Program) sono tra i costi che il governo sta cercando di tagliare. Uno schiaffo ulteriore alle famiglie che al momento vivono con una media di 6 dollari al giorno.
È un cane che si morde la coda. Se le tariffe continuano e Snap viene effettivamente tagliato, ci sarà più fame e più pressione su mense e banchi alimentari. Le quali dipendono in larga parte proprio sui prodotti in scatola, gli stessi che al supermercato capita di lasciare nei carrelli solidali. La loro natura di durabilità e versatilità li rende una garanzia: peccato che lo stesso valga per i materiali in cui sono contenuti.
Michelle Orge, direttore esecutivo della Second Harvest Food Bank nel Southern Wisconsin, evidenzia il paradosso. “I cibi in scatola sono sempre stati parte della nostra strategia. L’aumento dei costi colpirà la nostra abilità di procurarci l’ammontare necessario per le famiglie bisognose. Compreremo meno, oppure compreremo solo le varietà più economiche. Inoltre, prezzi più alti per colpa delle tariffe rischiano di scoraggiare le donazioni”.
Si lamentano persino le grandi compagnie, da Del Monte a Goya a Bush’s Beans. Fra queste anche il Can Manifacturers Institute (CMI) e The Aluminium Association, secondo cui le tariffe “minacciano di indebolire proprio quelle industrie che l’amministrazione dice di voler supportare”. Un coro di voci a dir poco disperate si alza: lo sentiranno nelle stanze dorate e ovattate del potere?