Cosa sta succedendo al riso italiano?

La crisi del riso italiano, avviata da quello cambogiano che arriva in Europa a dazio zero.

Cosa sta succedendo al riso italiano?

Per i 4000 produttori di riso italiano, la crisi del settore ha un nome preciso: riso Indica, provenienza Cambogia.

Un riso dai chicchi allungati, consumati più che altro nel Nord Europa per accompagnare i piatti principali, che ha fatto balzare la coltivazione di riso in Italia dai 169.000 ettari del 1982 agli oltre 247.000 del 2011, come riferisce il Sole 24Ore.

Spinti dagli incentivi Ue, molti risicoltori italiani hanno iniziato a produrre questa singola varietà, facendo aumentare la superficie coltivata di circa 70.000 ettari.

Oggi il riso Indica per l’Italia, che produce il 50% del riso europeo, rappresenta il 60% della produzione nazionale e viene totalmente esportato nel Nord Europa.

Ma se da una parte, grazie agli incentivi europei e all’aumento di superfici destinate alla varietà Indica, i risicoltori italiani sono passati da 300.000 tonnellate di riso esportate nel 2004 a 600.000 nel 2008, dall’altra proprio nel 2008 sono iniziati i problemi.

Per agevolare i Paesi in via di sviluppo, la UE ha stipulato accordi con Paesi del Sud Est Asiatico come Laos, Myanmar, Bangladesh e Cambogia: su tutti i prodotti importati nel territorio dell’Unione da questi Paesi, i dazi sono stati azzerati.

Con il risutalto che nel 2008 sono state importate in Europa, soprattutto dalla Cambogia, 10.000 tonnellate di riso a chicco lungo, lievitate a  370.000 nel 2016, con un incremento abnorme del 3600%.

Un’offerta smisurata che ha avuto come conseuguenza il crollo del prezzo del riso.

Se anni fa il riso nazionale era pagato agli agricoltori circa 350 euro a tonnellata, con punte di 400-450 euro, oggi non si riesce a spuntare più di 300 euro a tonnellata.

E visto che al di sotto dei 330 euro la tonnellata non è più conveniente produrre riso, molti agricoltori per ricavare margini di profitto hanno abbandonato simultaneamente la varietà di riso Indica per tornare ai risi nostrani. Causando in questo modo, però, un eccesso di offerta di risi nazionali, tanto che nel 2017 molti produttori hanno lamentato di non aver registrato utili.

Un esempio classico è il riso Arborio, che nel 2016 veniva pagato ai produttori 700 euro la tonnellata e che oggi viene pagato solo 300 euro.

Molti hanno abbandonato la coltivazione di Carnaroli, una varietà pregiata ma poco remunerativa: per i tre euro che il consumatore finale spende per acquistare il suo pacchetto di riso al supermercato, il produttore intasca solamente 28 centesimi: una cifra irrisoria.

E neanche riconvertire la produzione con mais o soia è una soluzione: se nel Novarese e nel Pavese qualcuno ha seguito questa strada, nel Vercellese è impossibile a causa della morfologia del terreno. Senza contare che tra autorizzazioni e adempimenti burocratici, per riconvertire la produzione potrebbero servire anche cinque anni.

Ma molti risicoltori ancora ci credono e vogliono andare a avanti, senza aiuti o incentivi ma solo vendendosi riconosciuto il giusto compenso:

“Noi non vogliamo incentivi —dicono alcuni di loro—, ma solo che ci venga riconosciuto il giusto prezzo”. E lamentano come il riso proveniente dalla Cambogia sia coltivato usando il triciclazolo, un fungicida oggi vietato in Italia.

La soluzione più auspicabile, secondo  i produttori? Scrivere la provenienza del riso sulle confezioni, e anche sulle etichette dei prodotti lavorati derivati dal riso.

Alla fine, sarà il consumatore a decidere a chi dare la sua preferenza.

[Crediti: Il Sole 24 Ore]