Vino, uno studio svela il modo in cui i Romani lo facevano affinare nelle anfore

Uno studio ha svelato che gli Antichi Romani erano soliti sigillare le anfore in cui conservavano il vino con del catrame di pino.

Vino, uno studio svela il modo in cui i Romani lo facevano affinare nelle anfore

In l’Italia il “fare il vino” è una vicenda antica. Le prime tracce risalgono a circa 4 mila anni fa, e gli stessi Greci nell’VII secolo avanti Cristo avevano soprannominato lo Stivale “Enotria”, o “Terra del vino” per intenderci. Nel corso dei secoli la fiaccola della vinificazione è passata nelle mani di numerosi popoli, ed è impossibile trattarne la storia senza nominare l’Impero Romano: è relativamente risaputo, infatti, che i vinificatori dell’Antica Roma fossero soliti impiegare delle anfore o delle giare per conservare il vino – ciò che invece è meno conosciuto è l’ingrediente segreto che di fatto permetteva al contenuto di rimanere al sicuro e arricchirsi di nuovi sapori.

vino aggiunto alla pentola

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Avignone, in Francia, ha infatti preso in esame tre anfore romane trovate nel porto di San Felice Circeo, in Italia, a una distanza di circa 90 chilometri dalla Capitale: le analisi dei campioni hanno rivelato tracce di residui vegetali, polline e una combinazione di elementi chimici che di fatto hanno costituito un’ulteriore prova dell’usanza di conservare il vino all’interno; ma le tracce in questione hanno anche fatto ipotizzare che si usasse del catrame di pino per mantenere le anfore in questione sigillate. Secondo i ricercatori gli Antichi Romani utilizzavano questi vasi sia vinificare il rosso che il bianco: in questo contesto, il catrame di pino era utile a sigillare e a rendere i contenitori impermeabili, ma non è da escludere che di fatto giocasse un ruolo anche nell’aromatizzazione del vino stesso.

I residui di polline sopracitati provengono, secondo le analisi dei ricercatori, da piante comunemente trovate nelle aree limitrofe; ma si ipotizza che la resina di pino venisse molto probabilmente importata dalla Calabria o dalla Sicilia. “Se ci fosse un messaggio da conservare dalla lettura di questo studio, sarebbe correlato alla metodologia multidisciplinare da applicare a casi come questo” hanno commentato gli autori dello studio in un comunicato stampa. “Utilizzando diversi approcci per svelare il contenuto e la natura dello strato di rivestimento delle anfore romane, siamo arrivati a un livello di comprensione decisamente più avanzato di quello che avremmo raggiunto con un approccio unico”.