Taste of Milano al sapore di Kabul (durante la guerra)

Enrico Sola è un amico cui capita di scrivere un blog famoso, Suzukimaruti. Ieri sera è stato a Taste of Milano e ha pensato a Dissapore. (M.B.)

Sono reduce dall’evento Taste of Milano, una di quelle iniziative collaterali che si fanno mentre c’è la settimana della moda, così anche chi non è una modella o qualcuno del giro (tipo i terribili gay con la borsa da uomo che spuntano come funghi in questo periodo, solo ed esclusivamente qui) si sente coinvolto. L’idea è interessante: in un’area recintata, con ingresso a pagamento, gli chef dei migliori ristoranti della città, Carlo Cracco, Aimo Moroni, Davide Oldani, Andrea Berton, Claudio Sadler e gli altri, offrono in assaggio – ovviamente a pagamento – i loro piatti al pubblico. L’occasione teoricamente è ghiotta: non capita tutti i giorni di poter provare, seppure in formato mignon, la cucina di così tanti grandi cuochi in un colpo solo. Vista da fuori – forse anche per colpa del mio immaginario veterobolscevico – sembrava una specie di Festa dell’Unità, dove al posto delle costine grigliate ti danno un assaggino di foie gras. Panza e militanza, insomma. Senza la militanza.

E in effetti l’evento trasudava comunismo. Anzi, socialismo reale. Quello delle tessere del pane e delle code interminabili nei negozi di Mosca per comprare un barattolone di cetrioli all’agro.

Pagati i 22€ di ingresso, già alle 20 e 30 di fronte ai banchetti che distribuivano il cibo (costava dai 4 ai 6 euro ad assaggino) c’erano scene da economia di guerra: code chilometriche, furbetti che cercano di tagliare corto, signore che si sfanculano per un flan di melanzane con mozzarella di bufala destrutturata e in generale un sentimento condiviso di fame, fame, fame.

Farsi 20 minuti (reali) di coda, spendere 5 euro e avere in cambio un singolo raviolo (peraltro tiepidino) è la norma a Taste of Milano. E passi pure il fatto di pagare 5 euro un singolo raviolo (sempre più tiepido), se si pensa che un piatto intero di quei ravioli ne costa 80. La qualità si paga. Però la coda no, eh.

Capita anche alla Festa dell’Unità: fai la coda, ti serve un compagno un po’ lento “ma tanto volenteroso” e le costine ti arrivano fredde dopo mezz’ora di attesa. Fa lo stesso: si va lì per la causa. Oppure si vede che c’è troppa coda e ci si rifugia in una pizzeria e fanculo all’ideologia.

A Taste of Milano non è furbo farlo, perché l’utente spende 22€ per entrare e già che c’è si compra i “crediti” (qui li chiamano “ducati”: bisogna pur far lavorare i copy) da spendere per acquistare gli assaggini. Un ducato, un euro. Cambio 1 a 1. Rigorosamente non rimborsabili. Quindi o fai la coda o butti i soldi.

E allora fai la coda, in mezzo a gente imbufalita che progetta ritorsioni, assalti ai forni del pane (siamo a Milano, no?) e in generale si lamenta.

E la coda è una delle più stressanti della tua vita, perché l’utente medio di questo evento è un milanesissimo post-paninaro anni 2000, che ama la bella vita, paga, pretende e, come di prammatica, vuole stupire la femmina. Insomma, sbruffoncelli di seconda fila, perché quelli di prima vanno a mangiare da Cracco e non fanno la coda per un suo piattino freddo all’aperto e in piedi.

Me li vedo già che, affamati e con le balle in giostra, rientrano a casa nell’hinterland sulle loro SLK di bassa cilindrata e di seconda mano (la SLK esiste solo per quelli che vogliono a tutti i costi la Mercedes e non possono permettersela), la giacca di Armani (presa all’outlet) buttata sul sedile del passeggero e smadonnano, affamati e un po’ più poveri.

E in effetti ti sfiora più volte il pensiero che il tutto sia pensato per loro più che per i gastrofanatici. Sarà perché a un certo punto in uno stand gastronomico fa bella mostra di sè, inspiegabile, una Maserati bianca, sarà perché c’è un sussiegosissimo stand dello champagne (coi calici di plastica), sarà perché tutto puzza di snobismo da discoteca, a partire dai buttafuori all’esterno.

Insomma, una pessima pubblicità per la ristorazione “alta”. Perché il piacere di “mangiare” non è solo mettere sotto i denti qualcosa di buonissimo, ricercato e speciale (e anche caro: il gusto è uno dei sensi più belli e si merita il meglio), ma è anche e forse soprattutto la convivialità, l’accoglienza, l’atmosfera, il piacere visivo dei piatti.

Qui chi ha completamente fallito, negli intenti, nella strategia, nella definizione del prodotto e nel rispetto del pubblico, è l’organizzazione.

Ventidue euro per entrare in un luogo, che è una mostra mercato, dove non c’è una mazza e dove poi devi pagare per mangiare sono una rapina.

Ma quello è il meno: uno è anche disposto a farsi rubare due soldi. Il problema numero uno è che non ci sono praticamente posti a sedere. Zero tavoli, qualche sgabello qua e là e poco più. E ovunque gente disperata che si chiede come diavolo fare a tagliare la fettina di vitella di montagna con salsa allo zenzero, visto che non c’è nessun posto dove appoggiarsi.

Il dramma numero due è che nei singoli gabbiotti dove ti danno gli assaggini (rigorosamente a pagamento) ci sono una o due persone al massimo che servono i piatti. Quindi code enormi, rese ancora più lunghe dal fatto che le cucine non sono in grado di reggere il ritmo.

Alla fine, esauriti i ducati e i nervi (la maggior parte degli avventori ne fanno una questione di principio), la gente esce mesta. E non avverte gli altri che entrano, un po’ perché in questa città la solidarietà è rara come le fontanelle pubbliche. E un po’ perché ci si vergogna.

E giusto girato l’angolo tutti capiscono il perché della presenza del porchettaro che, all’ingresso, avevano bollato di masochismo.

Fa affari. E c’è la coda.