Bar in Fase 2: quanti rifiuti produce la nuova normalità

Dal bancone dei bar ai ristoranti delivery, passando per l'asporto, la nuova normalità della Fase 2 produce parecchi rifiuti, e problema non è solo la plastica: sovrapproduzione e smaltimento di rifiuti green ci pongono di fronte a soluzioni necessarie.

Bar in Fase 2: quanti rifiuti produce la nuova normalità

“Almeno il coperchio del bicchierino non me lo dia”. “Devo”. La mia prima colazione al bar, post lockdown, è forse simile alla vostra prima birra d’asporto in questa Fase 2, o a una delle tante cene gourmet organizzate con creme sottovuoto dai ristoranti di fine dining che si sono reinventati con il delivery. Le nuove forme di normalità, qualunque forma assumano, dentro e fuori la ristorazione, sembrano avere un punto in comune: i rifiuti.

La mia prima colazione dalla riapertura dei bar (al pubblico), dicevo, è un caffè con macaron. E tanto packaging.

Una qualità materiale scarna ma potente. Linee nette tra colori decisi. Pochi tratti, gesto rapido, sostanza minimale. Ma carico di valore simbolico e capace di suggerire riflessioni profonde. Proprio come un’opera d’arte contemporanea, la cui materialità è spesso insignificante rispetto al portato emotivo e simbolico, così giace, non già appeso al muro di un museo, ma appoggiato al bancone di un bar in modalità asporto, il mio ordine per la prima pausa caffè post lockdown. Bicchierino di carta con coperchio d’ordinanza in plastica e un immenso, disfuzionalmente sproporzionato vassoio di carta bianco perla, a contenere in un angolino un singolo macaron rosa acceso, al lampone. Cerco di moderarmi con i dolci. Il vassoio aveva anche il coperchio.

Riflessioni angosciose su scenari distopici, mondi insensati. Provocatoria spesso l’arte concettuale. Ho buttato tutto all’istante prima di lasciare il bar, nel cestino interno a meno di un passo dietro di me. La filiera corta della monnezza. Quel tipo di filiera corta però molto poco romantica, o paladina della sostenibilità e della qualità alimentare.

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Di solito pensiamo ai rifiuti di plastica come il grande problema primario ancor più aggravato in tempi di pandemia in conseguenza dell’aumento degli acquisti per consegna. Per non parlare dell’immane tragedia incombente dello smaltimento delle mascherine (l’Università di Torino ne calcola un consumo di circa un miliardo al mese per i tempi a venire). Una bomba ecologica la cui miccia è per ora sopita sotto la non-soluzione dell’indifferenziato e degli inceneritori.

Ma c’e un altro rischio altrettanto insidioso per quanto sottovalutato. L’eccessivo impiego di imballaggi e incartamenti seppur in materiale riciclabile. Persino quelli compostabili non sono privi di complicazioni in termini di eccessiva produzione e uso.

Meglio il riciclabile della plastica; meglio il compostabile del riciclabile. Tuttavia una società ben funzionante utilizza le proprie risorse in modo efficiente, evitando sprechi e sovra-produzione. In caso contrario, il rischio è il proliferare di filiere produttive e servizi superflui alla comunità (utili solo a chi ci guadagna direttamente) con la conseguenza di creare quanto meno squilibri economici e costi sociali sia monetari sia no. Ad esempio, pensiamo anche solo al fatto che la filiera dello smaltimento del riciclabile/compostabile è di norma o a carico dello Stato o da questo sovvenzionata, con costi quindi per la collettività.

In aggiunta, le filiere della gestione dei rifiuti sono già di per sé in grave sofferenza durante questa emergenza sanitaria, a causa dell’aumento sproporzionato di materiale non riciclabile (come le mascherine) e la riduzione del servizio per consentire il rispetto delle aumentate norme di sicurezza. Sovraccaricare il sistema sarebbe sciagurato.

È indispensabile quindi razionalizzare e ripensare tutto l’universo “packaging”. A mio avviso, seguendo tre buone norme:

  • riducendo l’uso;
  • favorendo lo sviluppo di imballaggi compostabili e non semplicemente riciclabili;
  • migliorando lo smaltimento e il riciclo anche attraverso l’innovazione tecnologica e digitale.

Lo Stato dovrebbe da una parte alleggerire norme a volte sclerotiche ed eccessivamente precauzionali (vedi coperchio obbligatorio sul bicchierino del caffè), e dall’altra incentivare anche con le maniere dure (con obblighi precisi) imballaggi mono-materiale, evitando adesivi, etichette, elementi decorativi e materiali isolanti per quanto possibile. Anche a carico del pubblico dovrebbero essere campagne di sensibilizzazione del consumatore. Qui si entra nel reame comportamentale e la questione si fa in parte controversa. Emerge da diversi studi a carattere globale che se da una parte il consumatore sarà sempre più attento a scelte di vita sana e responsabile e quindi a minimizzare sprechi e rifiuti, dall’altra si riscontra anche una maggiore propensione all’acquisto di beni altamente imballati per ovvi motivi di timore e sicurezza, soprattutto nell’alimentare fresco.

Bisogna allora agire contestualmente almeno nel tentativo di promuovere e sviluppare packaging biodegradabili, ad esempio incentivando il mondo delle start-up nello sviluppo di materiali di nuova generazione dagli scarti biologici in un’intenzione più generale verso l’economia circolare. Ci sono già aziende in Italia che producono carta da bucce di frutta e noci.

Nello sforzo “green” che il governo tanto sbandiera, tra slogan che inneggiano alla cura e bonus per i monopattini, dovrebbe trovare adeguato spazio il miglioramento di raccolta, riciclo e compostaggio anche sull’onda della spinta digitale che stiamo attraversando. E ricordiamoci anche del nostro ruolo e responsabilità come consumatori. Scegliendo beni soprattutto alimentari a filiera corta contribuiamo a ridurre rifiuti e scarti, per un motivo ovvio: ogni passaggio di una filiera è un settore produttivo a sé che produce i proprio scarti.