Campania: che fine farà il turismo gastronomico?

Il turismo gastronomico è in pericolo e specialmente in quei territori isolati dalle grandi città: parliamo della Campania e in particolare dell'alto casertano, che prima del Covid-19 fioriva.

Campania: che fine farà il turismo gastronomico?

Nel balletto delle aperture e delle chiusure le realtà di provincia sono, se possibile, più sfortunate di quelle cittadine. Pochissime sono le occasioni di spostarsi fuori dai circuiti della casa e del lavoro: di conseguenza, degli spiragli di aperture poco e niente beneficiano i posti fuori dai perimetri dell’urbe, e quei territori che hanno costruito sul turismo enogastronomico la propria ricchezza perdono quel poco che hanno. L’esempio della Campania è emblematico.

Che fine hanno fatto o faranno i luoghi dell’entroterra italiano, quei piccoli borghi dove famiglie ciancianti solevano trascorrere il fine settimana di agriturismo in agriturismo, con i più hipster alla ricerca della cantina perfetta?

La Campania, per concentrarci su un caso esemplare, è un mosaico di paesaggi: si va dalle città densamente abitate (come Napoli) ai territori scarsamente urbanizzati come il Sannio, il Cilento inoltrato, l’Irpinia. L’area campana del Volturno, comunemente chiamata alto casertano, rappresenta davvero un territorio singolare: terra di almeno tre presidi Slow Food e di molti altri condivisi tra le varie condotte, ha il merito di aver creato una sinergia tra produttori e prodotti.

Okay in Campania non abbiamo la Langa del Barolo e il Volturno non è il Chianti: i russi non fanno a gara a chi investe di più in Campania, però un turismo gastronomico rispettabile ce lo abbiamo (avevamo) anche noi.

Ad oggi dici Caserta e la prima cosa che ti viene in mente è la pizza: gli ultimi anni hanno donato alla provincia una vivacità della quale forse Napoli è priva, con un curioso moto che dalla provincia remota si avvicina alla città. Merito, appunto, del lavoro di produttori e ristoratori che sin dai primi anni del Duemila ne hanno “ripulito” degnamente l’ immagine, spesso associata ad un’altra pandemia poco felice. L’inquinamento.

Per questi e molti altri motivi abbiamo deciso di fotografare l’alto casertano in questo difficile periodo scegliendo tre tra i suoi personaggi più significativi: Franco Pepe, patron della Pizzeria Pepe in Grani situata sul borgo di Caiazzo; la professoressa Anna Zeppetella, fiduciaria della condotta Slow Food Volturno; l’agricoltore 2.0 (e noto volto televisivo, aggiungo) Manuel Lombardi, produttore del conciato romano, formaggio antichissimo e primo presidio Slow Food della zona (parliamo del 2002, ormai).

Il discorso certo non si esaurisce qui: se una certa parte della provincia di Caserta presenta un tessuto coeso ed organizzato, seppur al momento molto sofferente, quanti altri posti dell’entroterra italiano, in quante altre regioni esistono situazioni virtuose e non virtuose da fotografare? Parliamo dopotutto della colonna vertebrale d’Italia, non di situazioni isolate.

Franco Pepe

Pizzeria Pepe in Grani (Caiazzo)

Franco Pepe

Contrariamente a tutte le realtà cittadine, Pepe in grani – così come moltissime altre realtà dell’entroterra – ha avuto la reale possibilità di apertura soltanto per pochissimi mesi dall’inizio della pandemia, che poi erano i mesi estivi. Il traffico umano dell’alto casertano è rappresentato innanzitutto dal turismo gastronomico: turismo che ci siamo impegnati fino in fondo a portare da queste parti, creando un modello economico basato sulle nostre potenzialità. Se il turismo enogastronomico, banalmente inteso anche come la possibilità di andare a mangiare una pizza di sera nei prefestivi e nei festivi viene a mancare, non abbiamo molte possibilità di aprire. Ho avuto la possibilità di un incontro con la ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova, che mi ha assicurato un interesse maggiore anche da parte degli altri ministri per quanto riguarda le questioni dell’entroterra.

In questo momento stiamo parlando di Pepe in Grani, ma la pizzeria accoglie un progetto molto più grande, un obiettivo ambizioso che è quello di fare rete tra i produttori: noi ristoratori di questa zona siamo i primi acquirenti delle loro derrate, alcuni come me acquistano le intere produzioni; in seguito, questi produttori – grazie al passaparola e alla loro bravura – sono arrivati sulle tavole di tutta Italia. Tutto ciò, con il problema della pandemia e le attuali normative che prevedono aperture in fasce orarie e giorni dove le nostre attività sono solitamente poco frequentate, è al momento bloccato. Da ciò si sta generando un’emergenza dapprima economica, ma anche sociale e psicologica. I paesi sono vuoti e c’è da dire che abbiamo fatto tanto affinché fossero frequentati: la pausa estiva, come dicevo prima, ci ha dato respiro. Ma ora siamo costretti alla chiusura, a differenza delle strutture della città.

Anna Zeppetella

Fiduciaria Slow Food Volturno

Quello che comunemente viene chiamato l’alto casertano, in Slow Food lo inseriamo come area del Volturno, seguendo più confini fisici che quelli amministrativi. Nella condotta della quale sono a capo, ci sono tre importantissimi presidi Slow Food: l’oliva caiazzana, il lupino gigante di Vairano ed il conciato romano. Molti altri presidi e prodotti importanti li condividiamo con le condotte limitrofe, ti faccio solo qualche esempio: il cece di Teano (condiviso con la vicina condotta del Massico-Roccamonfina), il pomodoro riccio casertano, lo zafferano, le peschiole di Vairano Paternora, il fagiolo lenzarello, la cipolla di Alife (che “appartiene” alla condotta Slow Food del Matese), oltre a vari vini ed oli.

Ora: gran parte di questi prodotti si può trasformare, ma molti altri in tempi normali sono proposti freschi agli acquirenti, come ortaggi e verdure di stagione. I primi acquirenti sono appunto le realtà ristorative della zona. Se i ristoratori della zona sono fermi da mesi, il fresco è invenduto. Molte derrate sono soggette alla trasformazione in conserve e stagionature, ma non tutto può essere trasformato oppure conservato.

Secondo uno degli ultimi report della Camera di Commercio di Caserta, il crollo delle partite iva delle microimprese agricole è praticamente verticale. Ciò significa che le persone non hanno fiducia né possibilità di continuare. Le misure finora adottate, anche per quanto riguarda gli amici della ristorazione, non sono sufficienti per il nostro territorio, che è lontano dalla città e vive di un altro tipo di economia.

Retorico dire che la terra non si ferma, ma è proprio così. Il lavoro si programma con mesi se non anni di anticipo; esistono le semini autunnali e quelle invernali, per avere poi risultati nella tarda primavera ed estate.

Un dato importantissimo da non dimenticare è che questa economia ruota interamente intorno alle famiglie: il questi casi il lavoro non è quantificabile in ore e giorni e i redditi rischiano di abbattersi quasi totalmente.

Manuel Lombardi

produttore di Conciato Presidio Slow Food e proprietario dell’Agriturismo Le Campestre

Agriturismo La Campestre

Sicuramente, a soffrire molto sono le attività di punta del nostro territorio, destinate al cliente finale: parlo di Pepe in Grani ma anche di altri della ristorazione che attirano – in tempi non Covid, s’intende – moltissime persone che altrimenti non verrebbero in questa zona. La grande conferma di ciò l’abbiamo avuta durante la pausa estiva, che ci ha dato respiro e ci ha dato la forza di capire che qui abbiamo innescato un “circolo virtuoso” che niente ha da invidiare alle città. Ma tutto ciò l’abbiamo fatto noi produttori della zona, poco ci è stato concesso dalle istituzioni.
Il conciato romano, cioè il mio prodotto identificativo, è fortunato in un certo senso: si salverà da tutto questo, ma ovviamente c’è un “prezzo da pagare”.

Cerco di spiegarmi meglio: abitualmente, propongo il mio conciato romano ad una stagionatura media. Ora per forza di cose, avendo giacenze, potrò far mangiare ai miei clienti conciato romano finanche di 13 mesi, un prodotto molto pregiato ma dal prezzo “abituale” decisamente alto. Non potrò però proporre ai ristoratori che da sempre si sono riforniti da me i prezzi di un 13 mesi, sarebbe deleterio. E come fare con coloro che solitamente prendono un prodotto meno stagionato? Questo paragone è utile per capire quanto sia enorme il problema con la filiera del fresco.

Ho circa 44 clienti che si riforniscono abitualmente, per un totale di 2500 chili di conciato romano annui. Inutile dire che al momento siamo quasi fermi, con qualche ordine partito da poco, le vendite online non sono equiparabili a ciò che facciamo normalmente.

Il territorio al momento sta soffrendo moltissimo, ma io sono una persona ottimista e ho i miei buoni motivi: il nostro modello di economia ci salverà. Così come noi produttori dell’alto casertano nel primo decennio del Duemila abbiamo portato avanti l’idea che la nostra terra non era la terra dei fuochi dipinta, che c’era anche tanto altro di buono, così porteremo avanti anche quest’altro difficile momento. E non mi va di parlare di Sud abbandonato, anzi: noi possiamo essere tecnologicamente avanzati, come tutti, creando un circolo virtuoso tra di noi grazie all’ausilio della tecnologia. Le persone possono prenotare tramite app già da anni al mio agriturismo, ma anche comprare il mio conciato.