Caro Melo Osteria a Donnalucata: recensione del ristorante di Carmelo Chiaramonte

Menu, prezzi e piatti del nuovo ristorante di Carmelo Chiaramonte, Caro Melo Osteria a Donnalucata, in cui siamo appena stati: com'è la novità gastronomica della Sicilia, in una recensione.

Caro Melo Osteria a Donnalucata: recensione del ristorante di Carmelo Chiaramonte

Caro Melo Osteria, a Donnalucata (Ragusa), è il nuovo ristorante di Carmelo Chiaramonte, nonché nuova vita da stanziale del “cuoco errante”. Ci siamo stati, per raccontarvi in questa recensione quella che è a tutti gli effetti una nuova Mecca gastronomica in Sicilia.

Quando ero bambino leggevo sulle guide alle osterie, nei portaoggetti dietro i sedili della macchina di mio padre, le schede di infiniti ristoranti. Sognavo i piatti, il servizio, le sale: sono sempre stato chi sono.

Ricordo le Cantine del Cugno Mezzano, un ristorante che fu, di Catania; ove si raccontavano lodi di un giovane chef siciliano e di un cacio all’argentiere che nell’immaginazione mi divenne leggendario.

E fu solo leggenda, e soltanto pensata, perché alle Cantine non arrivai mai a andare – un po’ per caso, un po’ perché lo chef, Carmelo Chiaramonte, non resse troppo a lungo il tedio della città e di una cucina troppo angusta per la sua sete di mondo; e ad un tratto andò via da Catania, e dalla ristorazione stanziale, per dedicarsi a una vita di “cuciniere errante”.

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Da allora percorre tutte le strade che la gastronomia, intesa come cultura e intuizione nel senso più ampio, può avere: dalle consulenze per la ristorazione alle lezioni tra sicilianità e musica, dai rituali erotici della tavola messi in scena come pezzi di teatro alle pubblicazioni tematiche di erudizione culinaria filologica e rurale, e poi volare, dal Cairo a Boston al Giappone (ove parlava di arance rosse e agrumi).

Una puntata della sua “Cucina dell’Amore” tocca persino il mio paese sospeso dell’entroterra isolano – io però sono lontano, e non riesco mai a incontrarlo, né allora, né prima, né poi.

Questo fino al 12 Giugno appena trascorso, data in cui Chiaramonte sospende il girovagare dei fornelli per inaugurare, finalmente, un locale che sia suo per somiglianza e appartenenza.

Inquadramento geografico della vicenda: siamo in Sicilia (e dove, altrimenti), per la precisione a Donnalucata, un paese sul mare, nell’angolo più tranquillo dell’altrimenti movimentata riviera ragusana.

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La sede è quella del Trittico, trattoria che l’ex proprietario Giovanni Pisana, amico del Chiaramonte, ha desiderato cedere a lui anziché svendere ad anonimi.

Carmelo, che già covava il desiderio di stabilirsi (chissà da quanto e per quanto, chissà se a lungo), incalzato dalla riflessione imposta dalla quarantena e dall’obbligo di cancellare gli imminenti viaggi di lavoro tra Stati Uniti e Australia, ha letto il segno e colto l’occasione che si è presentata seminuda – trasformando, in quattro e quattr’otto, l’osteria del Pisana in Caro Melo.

Il locale

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Si presenta, al momento, come una sala d’anticamera in penombra animata solo da poster, pezzi d’arte surreale e artigianato, giochi di parole trasposti in forma concreta, oggetti venati di un elettrico humor come props scenografici. Variopinte camicie fantasia – segno topico dell’ideatore – fanno compagnia a quattro sedie sparute accrocchiate al centro della stanza.

Tutti i tavoli e i coperti sono sistemati infatti all’esterno, in un cortile triangolare pergolato di edera e passiflora; circondato da un’aiuola perimetrale ove trovano posto innumerevoli erbe aromatiche, selvatiche addomesticate, alberi da frutto portatili, fiori eduli (nasturzio).

È un giardino delle delizie terrene versione giocattolo, riempie l’aria di profumi fluendo ininterrottamente verso il giradischi; che ne trasforma gli afrori in vibrazioni frusciate, mandando Paolo Conte, Peter Tosh, canti arcaici siciliani e bossa nova.

Dietro il piatto per i vinili, che manda i suoi giri da un lento bancone, si affaccia la luce della cucina che occhieggia, bianca, come dietro le tende di una casa di campagna. Accanto è allestito un tavolaccio che è dispensa per le conserve elaborate in casa, supporto per aperitivi e, non ultimo, il pass su cui lo chef ultima con una certa riservatezza teatrale la composizione dei piatti.

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C’è qualcosa di incoerente e onirico, nell’insieme, in questa osteria di fuori porta o balera di un sogno vagamente lisergico c’è una pluralità di stimoli e rimandi e narrazioni intrecciate che affondano nell’archeologia e nel misticismo; tendendo le fronde ad un cielo permeante di facezie.

Se come me non si conosce la persona-Chiaramonte, buttare l’occhio su Caro Melo restituisce però una proiezione fedele di ciò che è il suo personaggio; per come lo sappiamo ricostruito da video, e racconti, e resoconti di altri.

Il locale è un gigantesco ipertesto, sostanziato delle funzioni primigenie che sono la nutrizione e il godereccio, che pur essendo costituito di rimandi ad “altrove” e “in un tempo diverso”, canalizza tutto nel qui e ora.

Nonostante sia la prima sera la sala funziona a meraviglia, i tempi sono giusti, ogni attore del servizio ricco di funzione e personalità: più che una brigata, un cast.

Mi emerge allora, ma solo in punta, il significato profondo del sottotitolo utilizzato per definire Caro Melo: “osteria rituale”.

Rituale è il ripetersi dei gesti e delle stagioni, interiore e mantrico. Rituale l’esplorazione sistematica del mondo esterno che, introiettato, diventa perpetuo conoscimento degli anfratti di sé. Rituali sono le stagioni e la loro celebrazione pagana. Rituale l’evoluzione che non si misura con le mode, ma con le oscillazioni dell’anima ed il modo in cui, in sistole con gli affari umani, questa si contrae, poi pompa ed espande. È rituale la famiglia, circondarsi di persone che amiamo di fiducia.

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E mentre bevo l’aperitivo già penso, è forse questo il punto nodale che rende questo locale diverso dal resto, non un posto in cui venire solo a mangiare, ma una rappresentazione completa del reale digerita dall’assetto valoriale del suo demiurgo, che la rilancia in chiave caleidoscopica, coadiuvato da una squadra (in cucina e in sala) che ne condivide la visione come si fosse in uno sciame di api, o nella versione utopica di un’antica famiglia patriarcale.

Il menu e i prezzi

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Il menu, minimo, come nelle osterie di porto è tracciato a rotazione settimanale secondo l’intuito terragno e lunare del cuoco. Comprende tre antipasti (10-16 euro), tre primi piatti (12-16 euro), due portate principali (18-20 euro) e due dessert (5-10 euro).

È prevista, nonostante non sia indicata in carta, una formula degustazione da 70 euro per 8 portate, bevande escluse.

Fa da contraltare alla carta delle vivande la lista dei beveraggi, ancora una volta calzante al concetto embrionale di taverna d’alto tempo: fondata principalmente sugli sfusi, divisi tra “bianco d’ordinanza” del locale, un ottimo Inzolia, “sfusi rossi d’autore” forniti dalla madrina del ristorante, Bruna Ferro, di Carussin, e “Sfusi da meditazione” delle Cantine Privitera (una malvasia eoliana, un Marsala e uno stravecchio scippatesta, qualsiasi cosa ciò significhi al di là della connotazione etilica).

Completano la selezione un bianco e due rossi in bottiglia più un moscato astigiano per il dessert, ancora di Carussin.

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Sempre nel compartimento beveraggi, da notare la sezione “Elogio del rutto libero”, dedicata alle bevande gasate da usare in accompagnamento al pasto, preparate con seltz al sifone ed estratti autoprodotti di bergamotto, citronella, zagara: divertissement necessario del cuoco erudito, poeta e contadino, conoscitore e trasformatore della materia prima da quando è terra e mare finché si fa, caparbiamente, piatto.

I piatti

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Dopo una breve sessione di aperitivo al banco (è la prima sera di apertura, siamo arrivati prima di tutti: Carmelo mesce il vino, spalma su piccoli pan brioche una crema di carote e sedani “alla cacciatora”, apre barattoli, sciorina citazioni, intrattiene, taglia peperoncini in salamoia, coglie erbe) ci sediamo.

Si comincia con la Giardiniera di frutta e ortaggi con ketchup di albicocche, pirotecnico insieme di croccantezze in dolceacido ove il cavolfiore violetto in salamoia incontra il kumquat del giardino, la ciliegia cruda il pomodorino, la salsa di frutta ammanta tutto e le spigolosità acetiche, aspre, amare vengono assorbite, negli urti, dalla tenera pala di fico d’india spinata e inserita cruda.

Come nei trattati di cucina del Cinquecento, su una scorta galenica, il piatto fa fluire i succhi in bocca, in gola e nello stomaco; preparando al pasto e mettendo una letterale acquolina.

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Unendo gli stilemi di un’isola primitiva a tecniche e idee d’abbinamento collezionate nei suoi viaggi, tanto intesi in senso proprio di spostamento fisico che come voli intellettuali, Carmelo Chiaramonte rimette esotismo nella sicilianità, e nell’esotismo fa scivolare un germe esoterico… Se la cucina fosse musica, Chiaramonte sarebbe Battiato.

A seguire, la Tartara di cicale e gamberi, quasi cotoletta è una quenelle di crostacei crudi “impanata” alla palermitana con una spruzzata abbondante di muddica ben tostata. Buono nella sua semplicità, è indicativo del percorso che lo chef sembra voler tracciare per questo nuovo corso di operazione: piatti “dritti”, materia prima perfetta, potatura dei fronzoli e discostamento dalle mode; affinché l’innovazione sia intima e pregna di significato personale (ripetizione di gesti, stilemi, memorie): ancora una volta, se vogliamo, rituale.

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Come rituale e benaugurale è la Zuppa di mandorle e vongole al basilico, un biancomangiare medievale scucchiaiato seduti sulla costa, incontro-scontro tra la frazione lattiginosa e il fondo dolce del velluto di frutta secca e la parte salina, mediterranea, del mollusco: il cucchiaio non serve, è il guscio della vongola a raccogliere il fondo bianco, poi si succhia tutto insieme con gli ingredienti che duellano in bocca, a fortune alterne di tango, fino a risolversi in una positiva catarsi che sfuma in fondo al palato.

Punto altissimo è quello toccato da Fica la parmigiana!, per l’appunto una parmigiana di melanzane più (con tutti i suoi crismi: la salsa di pomodoro, il basilico, il formaggio) arricchita da sottili lamelle di fico fresco, che aggiungono umidità, dolcezza, scoppiettio croccante e spunto acido senza prevaricare la natura e la riconoscibilità del piatto della tradizione. Più che una rivisitazione, un miglioramento. Più che un gioco di parole, un calembour gustativo. Più che un antipasto, un simbolo. Più.

Gradevole ma privo di spinta il Cuturro di grano con tenerumi, ragù di cozze e grué di cacao, sorta di bulgur integrale in minestra, che si adagia su una dolcezza generalmente monocorde nella quale mancano sapidità e uno dei tanti elementi di rottura presenti in tutti i piatti ricevuti finora. Lo faremo presente allo chef: “Ho dimenticato il bergamotto!”, ci risponderà, con la smorfia maliziosa da viveur mentre siede per un attimo con noi e beve un bicchiere.

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Manifesto, nonché piatto storico di Chiaramonte, è il secondo, la Tagliata di tonno con peperonata di fragole: filetto di tonno rosso grasso e succulento, appena scottato, servito con peperoni arrosto, fragole e fragoline di bosco. Di semplicità e golosità spiazzante, traccia in bocca eterni ritorni fluidi di gusti e consistenze, con il pesce che diventa peperone e poi sguiscia in fragola, dilinquisce in un piccante evanescente e verde e richiama ancora il tonno, mordibile, sanguigno. Colpisce l’assoluta assenza di orpelli decorativi e l’abolizione generale del superfluo, tanto in termini di tecniche che di elementi presenti sul piatto. Secondo locuzioni tanto abusate in gastronomia che se ne è perso il senso autentico, qui è davvero l’ingrediente a parlare, il segreto è davvero la minore manipolazione possibile.

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Diverso il percorso scelto per il dessert, Fatti una pera: trionfo barocco dal gusto “di nonno”, rurale, in cui il frutto pochée incontra una ricca mousse di ricotta di pecora tanto buona che ancora bela, sopra scaglie di mandorle caramellate fino ai limiti della tostatura, che croccano, dolci e amare. Un dolce perfetto, da bis e forse anche da ter, da accompagnare a un bicchierino di Marsala sacrificale che possa chiudere, con un’aumentata consapevolezza dei propri sensi, una cena che è una Messa pagana.

Informazioni

Caro Melo Osteria Rituale

Indirizzo: Via Sanremo 7/1, Donnalucata (RG)

Sito web: www.carmelochiaramonte.it

Orari di apertura: Aprile-Ottobre tutti i giorni, 20.00 – 24.00, Ottobre-Aprile solo nei weekend

Tipo di cucina: siciliana internazionale, creativa e ricreativa

Ambiente: stimolante

Servizio: cordiale e preciso

Voto: 4,25/5