C’è un volto della montagna che solo di recente ha cominciato ad essere raccontato in ambito gastronomico: noto da secoli nella dimensione domestica e familiare, meno in quella della ristorazione, il mondo vegetale – ampiamente esplorato altrove – è ora al centro della scena in quota, complici anche lo studio e l’attenzione ad esso dedicata da parte di alcuni chef. In Veneto, nel contesto delle Dolomiti bellunesi, la raccolta di piante, erbe e fiori eduli e il loro uso in cucina sta ridisegnando progressivamente l’offerta ristorativa che sta quindi uscendo da una zona di comfort per fare dei vegetali non semplici guarnizioni ma ingredienti principali, articolando consistenze e sapori, non temendo di lavorare su torni acidi o amari.
La spinta vede al centro Cortina, meta turistica che costringe a fare i conti con i gusti di una clientela internazionale, di alto livello e più tradizionale nelle preferenze: con intelligenza, misura e vivacità diverse insegne hanno cominciato a trasformare la propria carta, virando verso ciò che boschi e prati hanno da offrire. Il risultato è una cucina decisamente interessante, articolata e capace di mostrare ampie potenzialità inespresse.
Le erbe delle Dolomiti bellunesi
La raccolta delle piante va fatta con cognizione e intelligenza: se da un lato, infatti, ad essere chiamata in causa è la salute (sono molte le piante nocive, velenose o mortali e alcune di esse possono facilmente essere confuse con specie commestibili), dall’altro fondamentale è la tutela di specie a rischio. Ben diverso è poi l’impiego domestico da quello ristorativo, in cui il rispetto delle procedure HACCP deve necessariamente essere garantito.
In assenza di un quadro normativo uniforme che, per esempio, subordini l’attività di raccolta di piante officinali spontanee a specifica autorizzazione rilasciata da parte delle Regioni a seguito della frequenza e superamento di un corso abilitativo, vale sempre la regola del buon senso e del rispetto dell’ambiente: raccogliere solo ciò che si conosce, affidarsi ad esperti e salvaguardare l’ecosistema montano. Tra le piante più comuni da raccogliere ci sono il farinello-buon enrico, l’erba cipollina, l’aglio orsino, il crescione d’acqua, la stellaria, l’ortica, la silene, il pino mugo, il pino cembro, l’abete, il ginepro, la genziana, l’imperatoria, l’acetosa, il trifoglio, l’epilobio, la calendula, il tarassaco, la cicerbita alpina, l’achillea e la veronica persica. Di seguito un breve approfondimento sulle principali e una breve lista di indirizzi in cui poterle assaggiare.
Allium schoenoprasum – Erba cipollina
Appartenente alla stessa famiglia di aglio, porro e scalogno ma dotata di aroma più lieve e meno intenso, è una liliacea perenne. Si caratterizza per il bulbo, che cresce sottoterra, e per le foglie, allungate, molto strette e che danno vita ad un cespo fritto. Vengono utilizzati entrambi, per guarnire e insaporire minestre, insalate, formaggi molli e aromatizzare salse e burro. Sono commestibili anche i fiori: hanno un delicato sapore di cipolla e possono essere utilizzati per decorare insalate.
Cetraria islandica L. – Lichene
Abituati a pensarla come una pianta tipica del Nord Europa (del resto il nome è evocativo), il lichene d’Islanda è presente anche nel nostro paese, nelle zone montane delle Alpi e dell’Appennino centrale. Si trova nei boschi di conifere, sui tronchi degli alberi, attaccato alle rocce, talvolta nei prati. E’ un vegetale che deriva dalla simbiosi di un fungo e di un’alga.
Il corpo vegetativo è chiamato tallo, è cespuglioso, ramificato, alto 10-15 cm ed è caratterizzato da lobi di colore marrone, o grigio-verde nella parte superiore e verde-argentata in quella inferiore. Nutriente e digestivo, veniva utilizzato dagli islandesi come vero e proprio alimento: raccolto in genere di notte, veniva fatto macerano nell’acqua per 24 ore per eliminarne le sostanze amare, quindi seccato e macinato, ottenendo così una farina che integrava le scorte di cereali destinati alla panificazione. Si utilizza il tallo raccolto all’inizio della primavera o alla fine dell’estate-autunno: si può appunto essiccare e usare come farina oppure consumare intero, fritto o scottato in acqua bollente e aggiunto al brodo.
Chenopodium album L. – Farinello
È una chenopodiacea e deve il nome alla leggera polvere bianca (pruina) che ricopre le infiorescenze e soprattutto la pagina inferiore delle foglie, mentre quelle superiori sono di colore verde scuro. Conosciuta sin dall’antichità e apprezzata per il suo valore nutritivo, era considerata un alimento povero e con la farina ottenuta della macinatura dei semi si poteva fare il pane. Oggi ha sorti diverse, venendo ricercata e apprezzata in sostituzione dello spinacio comune. Se ne consumano i semi, le foglie, i fusticini e i germogli.
Blitum bonus henricus – Farinello buon-Enrico
È la varietà di farinello più “nobile”: ha fusto eretto e può raggiungere un’altezza di 2 metri. Cresce vicino alle stalle, lungo i recinti erbosi dove sosta il bestiame, nei pressi delle abitazioni, delle malghe, in zone collinari e montane, da 500 a 2.100 m. Raccolta in primavera, si consuma in vari modi. Le foglie giovani – più tenere – consumate crude, condite con olio, pepe, succo di limone e con aggiunta di noci danno insalate diverse da solito. Quelle più mature possono essere lessate brevemente in acqua salata o cotte direttamente in padella e consumate esattamente come gli spinaci: nei ripieni, come ingrediente di minestroni, zuppe, vellutate o ripassate nel burro.
E ancora, per quiche, torte salate, frittate, salse, impasti verdi, paste e risotti. I semi possono essere tritati e aggiunti direttamente alle preparazioni o, sotto forma di farina, agli impasti. I getti fiorali si possono consumare come gli asparagi.
Peucedanum ostruthium L. – Sedano montano
Chiamato anche elafobosco, erba renna, o imperatoria vera, è una pianta a radice tuberosa, con foglie colore verde acceso sulla parte superiore e pallido sulla quella inferiore. Se ne utilizza principalmente il rizoma, che si raccoglie all’inizio dell’inverno o in primavera: se ne ricava un distillato utilizzato nella preparazione di liquori digestivi ma si utilizza anche per aromatizzare i formaggi. Si possono consumare anche le foglie, oltre alle radici, come condimento aggiunte alle insalate.
Juniperuscommunis L. – Ginepro
Arbusto perenne, è una delle piante più note in campo gastronomico. Ha un aspetto variabile: in pianura è un alberello che raggiunge i 5-6 m di altezza, mentre in montagna ha forma cespugliosa per diventare arbusto basso in alta quota e in zone particolarmente ventose. Ha foglie aghiformi, lanceolate, rigide, di colore verde glauco e biancastre. I frutti – galbule o coccole – di 4-5 mm, in realtà sono falsi frutti che derivano dalla modificazione carnosa delle brattee apicali. Si usano per aromatizzare le carni, in particolare selvaggina, porchetta, arrosti. Si aggiungono alle verdure sottaceto e trovano un buon abbinamento con le Brassicaceae, in particolare cavolo e verza. L’olio essenziale estratto per fermentazione e distillazione è alla base del gin.
Lactuca alpina (L.) – Lattuga alpina
Pianta perenne, lattiginosa e con fusto eretto, cresce nei boschi umidi, lungo torrenti, ruscelli e corsi d’acqua, ad una altitudine compresa tra 1000 e 2000 m. Appartiene alla categoria delle cicorie: se ne raccolgono, in primavera, foglie e fusto, ma soprattutto i giovani germogli (che si consumano crudi o cotti) prima che crescano troppo, altrimenti il gusto amarissimo li rende pressoché inutilizzabili.
Tra le preparazioni più apprezzate, quella che li vuole sottolio: il radicchio dell’orso o “radìc di mont” (in dialetto friulano) viene raccolto germoglio per germoglio, pulito e scottato brevemente in acqua, aceto, vino bianco, sale e un po’ di zucchero (qualcuno aggiunge anche cannella). Si scola e si lascia raffreddare su un panno asciutto che viene sostituiti quando troppo umido. I germogli vengono quindi messi in vasetti di vetro e ricoperti di olio extravergine di oliva, aglio e peperoncino. Il sapore è piacevolmente amarognolo e si sposa bene con formaggi, carni e salumi. Vista la raccolta indiscriminata, il Trentino Alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia hanno incluso la lattuga alpina nella lista delle specie a rischio: la raccolta è quindi regolamentata, come i funghi.
Silene vulgaris – Stridoli, strigoli
Noti anche come carletti, sclopit, schioppettini, bubbolini o tagliatelle della Madonna, comprendono un genere molto vasto: la silene conta infatti oltre 300 specie. Ha foglie tenere, lanceolate leggermente carnose e dal sapore che ricorda quello degli asparagi o dei piselli appena colti. Fiorisce da marzo ad agosto nella parte superiore del fusto: il calice è rigonfio come un piccolo palloncino e il fiore è composto da cinque petali di colore bianco o leggermente rosato. Cresce nei prati incolti, nelle radure, ai margini dei campi coltivati. Le giovani piantine possono essere mangiate crude o cotte. Le foglie tenere, se consumate crude hanno un sapore molto gradevole; consumate cotte, hanno una nota leggermente amarognola. In genere si utilizzano insieme ad altre verdure, nella preparazione di torte salate, frittate o pasta fresca ripiena.
Epilobium angustifolium – Epilobio
Pianta perenne, cresce nei boschi e in luoghi ghiaiosi, freschi ed umidi. Ha fusto alto fino a 150 cm, rossastro, eretto e ramificato nella parte superiore, foglie lanceolate e fiori di colore rosa vivo.
I germogli giovani e rossastri si raccolgono fino alla prima parte dell’estate possono essere consumati come gli asparagi. Le foglie più piccole possono essere aggiunte alle insalate e ai piatti di verdura o usate per fare delle bevande. Le radici invece possono essere macinate e la farina così ottenuta usata per fare il pane.
Berberis Vulgaris – Crespino
Arbusto perenne alto da 1 a 3 metri, ha foglie ellittiche, con margine dentellato. Riunite a ciuffetti, da esse escono spine composte da aculei pungenti. I fiori sono gialli e riuniti in mazzetti. Le foglie e i germogli freschi si possono mangiare in insalata. A maturazione, in estate a luglio, i frutti – bacche della dimensione di 1 cm di colore rosso – hanno un sapore aspro-acido e si possono preparare in salamoia come i capperi. In autunno si addolciscono e possono essere usati per preparare marmellate. I semi possono essere impiegati come spezia in cucina.
A tavola
I ristoranti del Bellunese che interpretano al meglio le erbe e il vegetale locale.
Da Aurelio
Aperto con il nome di Rifugio Piezza nel 1970, Da Aurelio (il nome è quello di Aurelio Dariz, cui si deve la capacità di aver trasformato il luogo in una meta di buongustai d’alta quota) è una delle insegne di riferimento nel panorama dolomitico. Si trova al Passo Giau, a 2175 m, circondato da pascoli, valli e cime e se la curata e accogliente sala interna e la terrazza con vista panoramica sull’Averau, il massiccio del Sella e la Marmolada consentono di godere del panorama, la nuova ala ispirata alle atmosfere dei “tabià”, con pareti vetrate permette di immergersi completamente nel contesto. Dal 1996 la gestione è passata al figlio di Aurelio, Luigi “Gigi” Dariz, che ha impresso una svolta nella proposta gastronomica, portando le tradizioni e gli ingredienti locali ad indossare una veste raffinata ma comprensibile a tutti.
Una delle “firme” di Dariz è l’uso delle erbe spontanee: da molti anni, con studio rigoroso ha intrapreso un percorso di approfondimento specifico sul mondo vegetale (piante, fiori, radici), che si concretizza – ogni anno, nel periodo estivo- in una serie di corsi tematici realizzati coinvolgendo esperti e chef ospiti. Oltre a ciò la stagione di quest’anno (conclusasi da poco) ha visto anche l’organizzazione di una vera e propria lezione all’aperto, a Passo Giau, seguita da un pranzo a tema botanico in baita.
Nella carta del ristorante, i piatti vedono l’uso di buon enrico, erba cipollina, aglio orsino, crescione d’acqua, stellaria, ortica, carletti, pino mugo, pino cembro, abete, ginepro, lichene islandico, genziana maggiore. Il modo migliore per comprendere il vero valore aggiunto rispetto alle ricette che li vedono tra gli ingredienti è scegliere il menu degustazione (4 portate 80 euro): la spuma di patate all’aglio orsino, finferli, sedano selvatico e fiori, gli gnocchetti con buon enrico e zabaione salato, il filetto di manzetta con porcini all’erba cipollina e la panna cotta al fieno, cranberry e lichene, conducono piante e fiori al centro del palcoscenico, assegnando loro un ruolo da protagonisti.
SanBrite
Tra le cucine di montagna espressione del territorio, non poteva mancare quella a cui ha dato vita la coppia formata da Riccardo Gaspari e Ludovica Rubbini, che ha trasformato il maso di famiglia in un ristorante elegante, in cui ogni elemento – dagli ingredienti agli arredi – esprime l’identità e il legame con le Dolomiti. Ecco allora erbe, fiori, bacche, essenze boschive, formaggi, pigne, carni, unite a comporre quella che la coppia ha definito “cucina rigenerativa”.
Il piatto che sintetizza il lavoro svolto in questi anni è certamente lo spaghetto all’olio di pino mugo, ormai divenuto signature. Significativo anche l’herbarium presentato all’inizio del percorso, che rimanda agli antichi erbari rinascimentali e a loro farsi vere e proprie enciclopedie di saperi, muovendosi trasversalmente tra botanica, farmacopea e cucina. I piatti vegetali del menu fanno altrettanta sintesi, così come le lumache alle erbe. Si sceglie alla carta o seguendo i menu a degustazione, uno da 160 euro e uno a 190 euro. 1 Stella Michelin e stella verde.
Baita Piè Tofana
Nata come punto di ristoro per i cronometristi delle Olimpiadi del ’56, l’insegna ha attraversato i decenni successivi con sorti alterne (non sfuggendo all’edonismo degli anni ’80: qui è stata infatti girata una delle scene di Vacanze di Natale) fino al 2019 anno in cui Michel Oberhammer (imprenditore del mondo del vino e proprietario anche di Baita Prà Solìo a San Vito di Cadore), rilevando il luogo, ne ha rinnovato gli ambienti optando per uno stile alpino moderno, pulito, senza barocchismi. La scelta – nel 2021 – di affidare la cucina a Federico Rovacchi (in curriculum esperienze da Crippa e Niederkofler) ha tradotto nei piatti il nuovo corso. Così, se in carta non ci si limita a spostarsi in uno stretto raggio geografico, sia per provenienza delle materie prime che per ispirazione delle ricette (tra i fornitori ci sono sia la Macelleria dal Farra che il Grigio del Casentino, così come i tortellini con panna al lievito e anguilla o il filetto di manzo, foie gras, seppia e salsa Teriyaki) è pur vero che le soddisfazioni principali arrivano dai piatti che vedono l’elemento vegetale autoctono al centro del piatto.
Di grande raffinatezza la millefoglie di bietola (che tuttavia cambia a seconda della stagione: in luogo della bietola possono esserci spinacio, cavolo nero, buon enrico) resa croccante dopo un passaggio in padella, disposta a strati con l’aggiunta di maionese di levistico (oltre a mela verde, formaggio comté, noci e crème fraîche), le lumache con aglio orsino e kefir al dragoncello, il risotto con caprino, crespino ed elicriso, lo spaghetto alla chitarra verde con alloro e aglio orsino, mantecato con crema di scarola e erbe amare passate alla brace (completato con olio al fico, foglie di cappero sott’olio, finocchio marino sott’aceto e chiffonade di scarola e acetosa alla base) e tra gli amouse bouche, la arlette salata con misto di insalate fresche ed erbe di montagna. Oltre alla carta, due i menu degustazione: I classici, 4 portate a 110 euro, Ai piedi delle Tofane: 6 portate, 145 euro.
Ristorante Tivoli
Graziano Prest guida solidamente questa insegna dal 2002, premiata dalla stella Michelin. Tra sale arredate con gusto rispettando gli stilemi classici, qui la cucina parte dalla montagna ma si allunga fino al mare per una carta che tuttavia non è un elenco di eccellenze per una clientela danarosa quanto una composizione sensata di ingredienti, scelti con precisione, dalla selvaggina alle erbe alpine, dai crostacei al caviale.
Un percorso tra eccellenze, che è possibile assaggiare sia alla carta, tra antipasti, primi e secondi con una proposta mirata che ha come oggetto anche i classici del locale, e tre menu degustazione: 6 portate a 165 euro, 7 portate a 190 euro e vegetariano con 6 portate a 148 euro. Le erbe spontanee qui sono protagoniste di un risotto, insieme a spugnole e salsa di foie gras, mentre quelle di montagna, insieme ai finferli e al purè di funghi rappresentano l’accompagnamento del filetto di cervo.
Acero rosso
Spostandosi di poco, a Vodo di Cadore, è il ristorante Acero Rosso a raccontare erbe ed essenze. In posizione defilata e immerso nel verde, ha le fattezze di una baita di montagna che all’interno svela un’accogliente sala rivestita in legno e un camino a riscaldare l’ambiente. Qui Aldo Melon, insieme alla moglie Raffaella, ha dato vita ad uno spazio capace di fare sintesi di tradizioni locali e suggestioni più moderne, cui gli impiattamenti arrivano a dare man forte. Anche in questo caso uso di prodotti locali, disponibilità e stagionalità costruiscono la carta che oltre alla presenza della carne (la selvaggina viene declinata in proposte non banali, tra cui la battuta al coltello di cervo con gelato alla senape) non esclude il pesce.
Le erbe si prendono uno bello spazio tra i primi: se la zuppa di ortiche, speck barbabietola e olio al larice o i fusilloni alla crema di erbette di montagna, rapanelli e guanciale croccante invogliano i più curiosi, anche gli amanti del classico possono trovare soddisfazione con delle classicissime tagliatelle al ragù di capriolo cui l’essenza di pino mugo (oltre a finferli e ribes) arriva a conferire note balsamiche.