I ristoranti italiani erano troppi

Il Coronavirus ha accelerato l'esplosione di una bolla: troppi ristoranti aperti in Italia, con un tasso di chiusure annue che, già prima della crisi, era significativo.

I ristoranti italiani erano troppi

I ristoranti cadono come foglie secche sotto il vento incessante del Covid. Ma non è che a ben guardare quel vento ha contribuito a far scoppiare una bolla che conteneva davvero troppe imprese?

Di certo il settore non se la passa bene, no davvero. Se, come sembra stia succedendo, si andrà verso nuove restrizioni in tutta Italia, soprattutto nei weekend, potrebbe essere davvero il colpo di grazia per molte imprese del settore. I soldi per i ristori sono presumibilmente finiti: il Governo non può più obbligare bar e ristoranti a chiudere, facendosi carico delle spese. Ma non può nemmeno farli riaprire nei momenti di maggior affluenza, rischiando un aumento dei contagi. Ergo, si prospetta una tragica via di mezzo, senza aiuti e senza i clienti migliori, quelli della sera e del fine settimana.

Le chiusure del 2020

Insomma, ribadiamo: tempi duri per la ristorazione. In molti non sopravvivranno, con conseguenze tutte ancora da calcolare. In Gran Bretagna, dove qualcuno ha già fatto quei conti, si sono persi nel 2020 30mila posti di lavoro nella ristorazione, a causa della chiusura definitiva di 1621 esercizi commerciali (+76% rispetto al 2019).

In Italia la situazione purtroppo non è migliore: secondo il report Istat, nel 2020 hanno chiuso in totale 73 mila imprese, di cui almeno 17mila non riapriranno. Di queste, circa 30mila (di cui già 5 mila non prevedono di riaprire) fanno parte del settore della ristorazione, che per l’anno appena concluso ha fatto registrare un calo di fatturato di oltre il 50% (dichiarato dal 26,7% delle imprese) e tra il 10 e il 50% (per il 56,3% delle imprese).

Quanti erano i ristoranti italiani?

Insomma, una débâcle. Ma quanti erano i ristoranti in Italia? Non è che c’era un surplus di imprese destinate comunque – prima o dopo – alla chiusura? A dicembre del 2018, negli archivi delle Camere di Commercio italiane risultavano attive 336.137 imprese appartenenti al codice di attività 56 con il quale vengono classificati i servizi di ristorazione.

In Italia siamo 60 milioni: dunque si parla di un ristorante ogni 178 persone.

Di più: su 6.091.971 imprese attive in Italia nel 2019 (dati Unioncamere) il 5,5% era rappresentato da ristoranti. Numeri che, abbastanza palesemente, rivelano l’esistenza di una bolla, destinata, come ogni bolla, a scoppiare.

La ristorazione nel suo anno d’oro

Una bolla relativamente facile da inseguire, almeno fino a pochi mesi fa, perché prometteva – almeno sulla carta – una bella fetta di guadagni. Per dire, il 2018 si era chiuso come l’anno del record di consumi degli Italiani nei ristoranti, con 85 miliardi di euro spesi per mangiare fuori casa.

Eppure, già allora, nei tempi d’oro della ristorazione, a ben guardare si poteva capire che non era tutto così semplice: proprio quell’anno, il saldo tra imprese avviate e quelle cessate nel mondo della ristorazione era stato il più corposo degli ultimi dieci anni, con -26.073 imprese chiuse che avevano portato il rapporto aperture/chiusure a – 12.444. Rapporto che – attenzione! – è comunque sempre stato negativo da più di dieci anni a questa parte: ovvero, dal 2008 in poi, ci sono sempre state più chiusure che aperture.

E c’è da immaginare che di certo il saldo sarà molto molto peggiore nel 2021, quando gli aiuti dello Stato finiranno, si sbloccheranno i licenziamenti e si vedrà il vero buco causato dalla pandemia nel settore. Così alle chiusure del 2020 (poche, tutto considerato, perché parliamo di numeri in linea con le cessate attività degli anni precedenti), dovremo sommare quelle dei ristoranti che cessata l’economia forzata della cassa integrazione e dell’interventismo dello Stato, abbandoneranno la sfida.

Chiusure dei ristoranti: le motivazioni

Quella della chiusura delle imprese della ristorazione quindi, non è una problematica legata solo al 2020, e ha radici ben profonde. Le motivazioni sono diverse, ma si possono ricondurre a tre filoni principali.

Il primo – anche se rappresenta una sorta di tabù di cui poco si vuole parlare – è quello del riciclaggio. Da sempre la malavita – e non si parla solo di organizzazioni criminali – utilizza la ristorazione come “lavanderia”. Imprese che aprono, riciclano denaro, e poi chiudono una volta concluso il loro compito, indipendentemente dai risultati, perché non sono quelli che contano nel bilancio.

Nel 2019, il rapporto agromafie della Coldiretti stimava che ci fossero almeno 5mila locali della ristorazione in mano alle mafie, per un giro d’affari di circa 24,5 miliardi di euro. Cifre quasi sicuramente sottostimate.

Il secondo problema della ristorazione è l’illusione dei soldi facili. In parte anche la deriva pop che ha preso il mondo del cibo, con gli chef diventati superstar televisive, ha contribuito a creare un’aura incredibilmente attrattiva intorno al mondo della ristorazione. Spesso chi si trova senza una carriera, magari con due risparmi da parte, decide di aprire un ristorante, convinto di diventare ricco.

La verità è che chiunque ha un ristorante che funzioni, in Italia, sa quanto quest’idea sia lontana dalla realtà. I ristoratori – quelli bravi – sono imprenditori di primo livello, capaci di fare i conti, di distribuire le spese, di non dilapidare i ricavi, di gestire i costi (spesso molto alti) del personale. La ristorazione è un business tra i più difficili, e questo non dovrebbe mai essere dimenticato.

Il terzo problema – altro tabù – è la quantità di lavoro nero che gira nei ristoranti, e che falsa i conti del settore. I ristoranti che funzionano, a volte, lo fanno grazie alla quantità di scontrini non emessi, o ai collaboratori pagati in contanti. Elemento che ha di certo contribuito a ingigantire una bolla che ora, alla resa dei conti, si rivela malsana.

Conclusione: chi si salverà

Un po’ come dicevamo a luglio 2020, in seguito al virgolettato travisato di Laura Castelli (“Se i ristoratori non hanno più clienti, cambino mestiere”), che i ristoranti siano troppi è un dato di fatto. E per i motivi detti sopra si salverà – in parte – chi ha lavorato come si deve. Sia chiaro: molte imprese meritevoli, sane e corrette cadranno anche loro sotto la scure del Coronavirus. C’è di certo una componente di fortuna non indifferente nella sopravvivenza alla crisi della pandemia, basti pensare a chi magari aveva speso tutti i risparmi per un progetto di ristrutturazione, o per una nuova impresa che ora fatica a partire. Ma la verità è che molti dei ristoranti che chiuderanno avrebbero probabilmente chiuso lo stesso, oggi o domani, come accade ogni anno.

La cruda realtà è che questa crisi ha contribuito, con impietosa velocità, a far scoppiare quella che a tutti gli effetti era una bolla sovrastimata: troppi ristoranti, e troppi ristoranti mediocri. Sopravviveranno – si spera – i migliori, e in effetti è sentendo i migliori che si ha questa sensazione: le loro preoccupazioni sono comprensibili ma contenute, e in generale sembrano molto sicuri della loro stabilità, nonostante tutto. Gente che ha alle spalle anni di lavoro, di esperienza e di affezione dei clienti, che sa che per questo ritorneranno non appena possibile, bisogna solo tener duro.

Per tutti gli altri, purtroppo, i tempi saranno difficili. Ma forse, in un modo o nell’altro, si capirà che la ristorazione non è quel mondo facile e roseo che poteva sembrare attraverso lo schermo della tivù.