Il New York Times elenca i trend degli impiattamenti gourmet, e a noi sembrano super vecchi

Il New York Times elenca i trend degli impiattamenti, gourmet e non, restituendoci un'immagine desueta della ristorazione americana. E in Italia come siamo messi?

Il New York Times elenca i trend degli impiattamenti gourmet, e a noi sembrano super vecchi

È di pochi giorni fa il pezzo che il New York Times dedica allo stato dell’arte dell’estetica culinaria, argomento affrontato in una rassegna dei trend degli impiattamenti gourmet più in voga nella ristorazione statunitense di oggi, e che noi ci divertiremo ad usare come termine di confronto con le tendenze nostrane. Una raccolta che include anche i malumori  di un agguerrito movimento che, radunandosi su Reddit nel sub /WeWantPlates, raccoglie le immagini degli impiatti più estremi, magari fantasiosi, più spesso discutibili e oltre i limiti della parodia involontaria. Il tema più diffuso è quello per cui le care vecchie stoviglie sembrano diventate il nemico giurato del design, e qualsiasi suppellettile vada ber per sostituirli, basta cha non si usino gli antiquati e vetusti piatti.

Bruttezza d’autore e non

piatto stellato brutto

Va detto che in questo gruppo si tende a fare di un po’ tutta l’erba un fascio, affiancando con gli stessi intenti canzonatori piatti provenienti dai più remoti antipodi della ristorazione. Traspare una certa passione per pale e badili, a volte per montagne di cibo alla man vs. food, altre per strambi servizi a tema giardinaggio con tanto di vasi ad accompagnarli, in un caso con un confuso ma tutto sommato perdonabile riferimento alle cotture alla piastra giapponesi, in cui almeno un piatto – il sukiyaki – sarebbe nato secondo le leggende proprio cuocendo le pietanze su una pala; tutto questo insieme ai dessert pennellati direttamente sul tavolo à la Alinea, o alle composizioni di caccia più hardcore ispirate alla cucina nordica, con le loro parti anatomiche in bella mostra. Ammettiamo che, presi così palesemente fuori contesto, anche questi piatti effettivamente “d’autore” perdono un po’ della loro sacralità.
Una protesta ironica che ha raggiunto il milione e mezzo di iscritti al sub e che è arrivata persino alle orecchie del New York Times che ha pensato bene di fare il punto su queste tendenze nella scena del fine newyorkese del fine dining, in questo caso quello vero. Vediamole e cerchiamo di capire se anche qui da noi la situazione sia effettivamente così sfuggita di mano da suscitare un’analoga ondata di protesta.

Colpa di Ratatouille

Cesar salad stellata

Shingles” -tegole- è appunto la sovrapposizione di fette sottilissime e regolari. Visto spesso per nobilitare esteticamente delle proteine o per rendere accattivanti carpacci a base vegetale, non la annovererei tra le piaghe della ristorazione nella vita reale quanto più in quella rappresentata su Instagram o TikTok, e alimentata dal Confit Byaldi, la ratatouille a fettine resa celebre dall’omonimo topo-cuoco del film Pixar.

Le Tuiles, le cialdine croccanti dalle forme più varie (meglio se in tema col piatto che le sottende) prima appannaggio esclusivo della pasticceria e ormai tradotte anche nei piatti salati. Più influenzate dagli stampi di silicone alimentari con cui formarle che altro, al di fuori dei dessert sono più che altro relegate ad amouse-bouche, anche qui direi che non abbiamo da lamentarci

“È  cotta, puoi scolare”

tipico impiattamento da piatto michelin

L’impiattamento con gli elementi tutti di lato, assecondando la curva del piatto o disposti in linea retta, meglio se accuratamente punteggiati di petali, erbette ed altri microelementi distribuiti con precisione maniacale con apposite pinzette, è un forse l’estetica più rappresentativa della cucina gastrofregna contemporanea, ed inequivocabile emanazione dell’enorme influenza che esercitata dalla nuova cucina nordica. A parte qualche classicone, è difficile trovare che non abbia ceduto a questa ispirazione estetica. Se siete appassionati di ristoranti, ne avrete la galleria foto piena.

L’utilizzo dello “spazio negativo”, il dare la stessa importanza al vuoto quanto al pieno. Un concetto chiave dell’estetica gastronomica giapponese e che è stata introdotta nella cultura culinaria europea col minimalismo proprio della nuovelle cuisine, in risposta agli eccessi della cucina del dopoguerra. Col tempo un’iperbole distorta di questa idea è diventata il simbolo dello sfottò verso la supponenza della cucina d’autore: piatti dal diametro di un cerchione di una mercedes che ospitano un singolo raviolo al centro che il malcapitato commensale ingurgita in un boccone dichiarando “è cotta, la puoi scolare”. Un umorismo che fa ridere quanto uno special di Pio e Amedeo in prima serata su Rai 1, ma che è sintomatico di quanto, nel bene o nel male, questo tipo di impiattamento sia diffuso nell’immaginario collettivo. Curioso che sul New York Times venga definito come un trend.

Siamo in ritardo, per fortuna

Dove il NYT e i redditor di /WeWantPlates trovano veramente terreno comune è sulla totale sostituzione della stoviglia in sé, tendenza evidentemente molto più diffusa che da noi. Il celebre ristorante italiano newyorkese Torrisi serve la sua selezione di prosciutto su una carta da salumiere, rigorosamente griffata col logo del locale, mentre da Naks, fighissimo ristorante di ispirazione filippina nell’East Village sembra aver totalmente abbandonato i piatti in favore di foglie di banano e legno, che condivide con l’arredamento interno. Una tendenza che da noi, nel bene o nel male, non vedo concretizzarsi nel prossimo futuro.