La discriminazione del delivery

Quanto ci vuole ad estendere i servizi di delivery in provincia? La pandemia ha dato una modesta accelerata alle consegne a domicilio della spesa, ma sulla ristorazione è ancora discriminatoria.

La discriminazione del delivery

Abito nella provincia lombarda, fuori dai circuiti dei grandi ristoranti, dove l’esperienza gastronomica più esotica a portata di mano è il kebab o l’all you can eat cino-giapponese. Abito nell’orbita delle pizzerie che, dopo anni di trend, hanno scoperto solo da poco la “napoletana più alta”. Abito, insomma, in un posto bellissimo in mezzo alla natura, ma decisamente fuori dalle mappe di copertura dei servizi di delivery.

La frustrazione è doppia, anzi tripla constatando che le consegne delle piattaforme di consegna a domicilio arrivano fino a pochi paeselli prima del mio, o visitando i social network di gourmet metropolitani che ordinano qualsiasi cosa da qualsiasi ristorante in qualsiasi momento. Oltre questo limite, appartenenti a CAP postali di margine, la vita patinata da serie tv alla Big Bang Theory dove in casa non si cucina mai, è pura utopia.

Si parla spesso del fatto che la pandemia abbia finalmente strutturato e ampliato questo tipo di aziende e servizi, ma questa conquista vale solo nelle città. Al di fuori, dove l’immagine del rider è ancora un miraggio nel deserto, la situazione è appannaggio di iniziative singole. Impossibile immaginare situazioni da metropoli, con biciclette e grandi zaini che, qui, arrancherebbero in salita e sfracellerebbero pizze in discesa. Impensabile anche che le grandi aziende del delivery si amplino per raggiungere i “margini”, ipotizzando numeri non proprio allettanti. Questo genera una organizzazione casereccia dei ristoranti di provincia che, coi mezzi a disposizione, cercano di stare al passo coi tempi e fare il possibile.

Capita così che i singoli locali si organizzino in autonomia con risultati naif: c’è chi, all’interno di un raggio chilometrico ben delimitato consegna a casa senza far pagare nulla oltre al conto, una sorta di investimento a perdere per mantenere il contatto con la clientela e permettere di proseguire il lavoro, ancora molto languido nelle sale riaperte. C’è poi chi ha fissato un tetto minimo di ordine per la consegna a domicilio gratuita, penalizzando i single che sono spesso i delivery-lovers più accaniti.

E poi ci sono i deterrenti più medioevaleggianti, come l’imposizione di dover pagare alla consegna con soli contanti, essendo sprovvisti di Pos mobile. La periferia più spinta, insomma, è ancora ferma al concetto “so 80’s” dei pony-pizza, nulla di più.

Lo stesso valeva fino a poco tempo fa per i servizi di consegna a domicilio della spesa da parte dei supermercati, ma in questo caso la pandemia ha dato davvero un’accelerata alla questione e oggi, diverse catene della GDO arrivano allegramente con camioncino brandizzato anche a casa mia, o comunque in luoghi remoti che pre-covid non erano presenti nelle mappe dei suddetti. Ancora solo qualche mese fa tutto questo era impensabile.

Nel frattempo, qui in provincia, visto che il delivery resta (e forse resterà) un’utopia, continuiamo a sfornare pane e focacce, reazionariamente ancorati alle conquiste del primo lockdown. Ma la speranza è l’ultima a morire.