In tanti ci siamo arrivati colpevolmente in ritardo. Abbiamo dovuto (o voluto) aspettare che lo confermasse l’ONU, quello che in un mondo sempre più interconnesso vedevamo in molti modi sugli schermi dei nostri dispositivi, ovvero che Israele stava affamando colpevolmente e deliberatamente Gaza e l’intera popolazione Palestinese. Abbiamo dovuto aspettare che ci fosse una grande iniziativa collettiva – la Global Sumud Flotilla, che presto porterà a Gaza aiuti umanitari provenienti da oltre quaranta paesi diversi, e che ha portato decine, centinaia di personalità del mondo della musica e dello spettacolo ad alzare finalmente la voce in difesa della Palestina.
Abbiamo dovuto indignarci di fronte alle inverosimili immagini diffuse da Israele con i ristoranti di Gaza pieni di gente, o vedere le immagini del “double strike”, l’attacco doppio usato da Israele per colpire i soccorritori accorsi dopo un primo bombardamento, e con loro anche i (pochi) giovani giornalisti rimasti sul campo a Gaza. Abbiamo dovuto chiederci se fosse il caso di continuare a fare il nostro lavoro, mentre un’intera popolazione moriva di fame assediata dallo Stato vicino.
Abbiamo aspettato, osservato, analizzato, forse anche avuto paura di schierarci in maniera aperta. Lo abbiamo fatto in tanti, ma ora sembra arrivato finalmente il momento in cui parlare apertamente non può e non deve più fare paura. Sono tanti i profili pubblici di personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, dello showbiz, che si stanno schierando in maniera chiara e forte su ciò che succede a Gaza, facendo la loro parte nel portare all’attenzione dell’opinione pubblica il massacro che avviene ogni giorno.
Finalmente. Inutile accusarli di non averlo fatto prima: una presa di coscienza collettiva a volte richiede (purtroppo) tempo, coraggio, forza. Meglio tardi che mai, dunque, e ora è arrivato il momento che si facciano sentire anche gli chef.
Perché è il momento degli “chef for Gaza”
Il silenzio di chiunque, in questo momento, è assordante. Lo è quello di chiunque non prenda la briga di schierarsi, di denunciare, di parlare. E, dunque, è arrivato il momento che anche gli chef smettano di stare in silenzio.
Non significa mettersi in prima linea sul campo, portando da mangiare alla popolazione palestinese e testimoniando direttamente come venga affamata dall’assedio, come fa e ha fatto chef José Andrès. Ma prendere posizione, e utilizzare la propria popolarità e la propria capacità di risonanza mediatica (che spesso è molto ampia) per denunciare, raccontare, portare la questione a quella parte di opinione pubblica che resta ancora da convincere sui giganteschi crimini che Israele sta compiendo a Gaza.
D’altronde, lo ha fatto anche il celeberrimo Yotam Ottolenghi che, in quanto chef di origine israeliana, forse aveva molto di più da perdere schierandosi. Eppure, già questa primavera, lo chef autore di un movimento di cucina contemporaneo influente e diffuso a livello internazionale, ha espresso la sua opinione su come il cibo non possa essere strumento di violenza, e non è certo un caso che abbia dovuto chiudere i commenti sotto il post in cui denunciava la fame a Gaza.
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Ma non sono “solo” chef?
Ma sono soltanto chef, si dirà. Eh, in effetti, spesso lo abbiamo pensato e detto anche noi. Eppure, la verità è un’altra. Gli chef oggi sono molto più che semplici cuochi, e lo sono da molto tempo. Sono star televisive, star social e pure, in qualche caso, star socio-politiche, che si schierano su molti temi e che dai palchi su cui salgono lasciano messaggi che vanno ben oltre la cucina.
Che poi, nel caso specifico di Gaza, è (anche) di diritto al cibo che si sta parlando, e quindi siamo pure nella loro sfera di competenza. Un po’ come sulla crisi umanitaria in Sudan, su cui comprensibilmente è più facile e immediato schierarsi, e su cui qualche iniziativa gastro-social è stata pure lanciata.
Ora, però, è il momento di alzare la voce per Gaza. Tardi, è vero, ma è il momento di farlo. Di usare quella voce e quei palchi che negli anni sono stati guadagnati dagli chef per prendere posizione, e per dire che è ora di smetterla. E dunque, lanciamo un appello: chef, dite la vostra su Gaza. Servirà forse a poco, ma serve più del silenzio.