Se la ristorazione italiana, in particolare nei centri storici, è sempre più prigioniera dello stereotipo pasta pizza e mandolino, la colpa è anche un po’ nostra. Lo racconta il New York Times in un lungo reportage sullo stato dell’arte del turismo in Italia, inevitabilmente sempre più legato al cibo. Folle affamate à la recherche di una cucina tipica dell’immaginato Belpaese favoriscono la proliferazione di ristoranti di bassa qualità e dubbio gusto. Il risultato? La progressiva trasformazione delle città d’arte in parchi a tema mangereccio che lasciano sempre meno spazio a tutto il resto.
Spritz e carbonara
Nel titolo completo del reportage a firma Emma Bubola, i due “classici” della tavola turistica si stanno mangiando l’Italia. Spuntano dappertutto: dal Pantheon a Piazza Bra, dai Navigli al Rione Sanità, dalla Costiera alle Cinque Terre. In questo caso il New Times si concentra su Palermo, in teoria patria dei mercati alimentari e dello street food verace. Nella mesta realtà del 2025 tuttavia il capoluogo siciliano si omologa, prostrandosi alla dura legge della domanda-offerta versione turista medio. Così, serviti sulla tovaglia a quadretti rossi e bianchi di ordinanza, ritroviamo gli stessi piatti e drink da Cortina in giù.
Persino il sindaco Roberto Lagalla se n’è accorto, e ha messo un freno ai tavolini che si moltiplicano senza soluzione di continuità in via Maqueda, arteria principale della città. Palermo “non deve trasformarsi in un villaggio turistico del cibo”, ha dichiarato. Non è l’unico: anche a Firenze il comune ha detto stop all’apertura di oltre 50 nuovi ristoranti nel centro storico. La tendenza tuttavia va decisamente nella direzione opposta.
“È come se per strada fossero apparsi consumatori ciechi, senza papille gustative e con uno stomaco di ferro” dice Maurizio Carta, sovrintendente alle opere pubbliche di Palermo. Guidati da una certa idea di cucina italiana pompata dai social, questi zombie del cibo invadono le città d’arte come cavallette, concentrandosi quasi esclusivamente su quello che hanno nel piatto. Così il Colosseo, il Duomo, o in questo caso il Teatro Massimo di turno, restano sullo sfondo. Diventando mere attrazioni di contorno al piatto forte, come l’insalatina annaffiata di crema all’aceto balsamico farlocca.
Foodification
È inevitabile che se ne parli. Definita come gentrificazione legata al cibo, o ancora meglio: “Processo di trasformazione delle città in cui il cibo e le pratiche ad esso collegate diventano centrali, influenzando l’urbanistica, il turismo e il tessuto sociale”. Ne sanno qualcosa i bolognesi, la cui città è ormai satura da fast food tutti uguali a tema mortadella e gnocco fritto. Che non solo spuntano come funghi, ma vanno a sostituire (anzi letteralmente si mangiano) botteghe ed esercizi storici.
Nell’esempio del New York Times, vengono citati i banchetti tipici del mercato palermitano. Poco tempo fa punto di riferimento per la spesa locale con frutta e verdura locale di stagione, anche loro per sopravvivere sono costretti a reinventarsi. Così, al posto di babbaluci e cucuzze, troviamo non meglio specificati fritti, biscotti di marzapane, pacchi di pasta “tipica”. Non stiamo dicendo che non possano esistere banchi o negozi dedicati, anzi. Il punto è che per guadagnare una fetta di queste abnormi ondate di consumismo, il resto, che poi è la parte autentica e francamente più utile al quotidiano di chi in città ci vive, si perde per sempre.
Il problema è che non tutti vedono il problema. A partire dai piani alti del governo e da quella genialata della Venere influencer “Open to Meraviglia” (sono ammesse tutte le storpiature del caso). Giusto a settembre Giorgia Meloni definiva il turismo “un generatore straordinario di ricchezza e benessere”. È innegabile del resto che il settore sia una parte importante della nostra economia, rappresentandone ben il 13%. E di questa percentuale, cibo e vino sono la parte trainante.
Come sempre però non basta la quantità: ci vogliono qualità e soprattutto buon senso. Non è possibile, non è neanche giusto che i nostri centri storici siano tappezzati di bar a tema limoncello, tiramisumerie, sfornatori di bowl di pasta in serie tipo pokè. E che magari compaiano al posto dell’ennesimo negozietto, del supermercato o bar di quartiere sottratto alla popolazione locale. Altrimenti il pericolo, e già siamo oltre il rischio, è quello di trasformarci nell’Italia della Disney o di Las Vegas. Dal momento che comunque i nostri monumenti sono “ammirati” attraverso uno schermo, tanto vale andare lì se l’importante mangiare (male).