Trippa a Milano, recensione: la nuova trattoria nella sua forma più compiuta

Recensione aggiornata al 2019 della trattoria Trippa a Milano. Il menu, i prezzi, i piatti che abbiamo provato, le foto, le nostre opinioni.

Trippa a Milano, recensione: la nuova trattoria nella sua forma più compiuta

Trattoria Trippa è il ciclone di Milano che ha introdotto la “nuova vecchia cucina” nella sua forma migliore. La nostra recensione, aggiornata al 2019, di un posto che si candida de facto come nuovo paradigma.

Trippa è esattamente ciò che si prefigge di essere, nella sua forma migliore (o quasi). È la nuova trattoria, si badi non contemporanea, poiché c’è una certa differenza: il nuovo è una versione rinata ed evoluta di qualcosa, dove ciò che di buono era scomparso, svilito, perduto per mille motivi, riprende vita grazie a sforzo e intenzione.

D’altra parte, nel food, il contemporaneo invece è spesso sinonimo di spocchia, di pretesa innovativa dove la scena prevale sulla sostanza. Più che far rivivere il bello del vecchio, è tradirlo con mezzucci stanchi e capziosi. Noi di Dissapore abbiamo già affrontato in molteplici occasioni, parlando per esempio di Flavio al Velavevodetto: la differenza tra la “nuova vecchia cucina” – forse il fenomeno emergente più interessante al momento in Italia – e il gastrofighettismo delle osterie “contemporanee”.

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Per Diego Rossi, chef e capo di Trippa – dicevamo una nuova trattoria, e non contemporanea – il rapporto coi piccoli produttori, i macellai ad esempio, corre sul filo del quinto quarto (i tagli poveri dell’animale, gli scarti, le interiora, i pezzi plebei), laddove le trattorie contemporanee magari non sanno neanche il significato della parola.

Da Trippa il mantra è ritrovare il contatto con la natura, con la produzione di qualità, ridare volto e dignità agli animali attraverso le loro parti più vere, non le figure geometriche astratte e matematicamente eleganti come filetti e cosce. Che sono invece tutte cose molto contemporanee. Nella nuova trattoria, la stagionalità non è uno statement, ma un fatto tanto ovvio quanto strumentale a motivare la ricerca e spingere la creatività.

Dunque la nuova trattoria nella sua forma migliore. Ma come si fa a sapere qual’è tale migliore versione di sé, quando solo quell’unica versione esiste? Essa infatti non è aprioristicamente definita, non posa teorica e priva di corpo in qualche catalogo trascendente, non esiste in potenza. Come può un unica versione esistente essere anche la migliore?

Eppure succede, perché quando la si raggiunge, si vede, si percepisce chiara anche se non si sa spiegare. È come l’odore del freddo, tanto lampante e inequivocabile quando aleggia, tanto difficile da descrivere e distinguere nei suoi componenti. Lo sai quando lo senti, lo sai quando è intorno a te.

 

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È molto rischioso camminare su questo crinale di compiutezza, perché il confine con la prevedibilità noiosa, con la mancanza di carattere, è labilissimo. In fondo il bello sta nelle imperfezioni, no? È rischioso anche perché spesso tale realizzazione ideale è frutto del seguire i paradigmi prevalenti e le tendenze del momento, e quindi è studiata, ipocrita, compiacente. Nulla di piu che il trendy espresso al suo massimo.

Diego Rossi rischia tutto questo. Le mode di oggi ci sono tutte: lo chef carismatico e social, il recupero di scarti e tagli poveri, la stagionalità convinta, i piccoli produttori, i vini naturali, gli animali e i vegetali con nome e cognome. Il superamento del gastrofighettismo a colpi di schiettezza e veracia. Eppure lui si beffa di questi pericoli, da cui è continuamente lambito ma che mai hanno la meglio. La sua cucina è si cliché, ma mai scontata; è forma ben studiata ma è ruvida e irruente; è figlia del suo tempo di cui però è al contempo leader. E soprattutto è sostanza, tantissima sostanza e maestria.

Il menu, i prezzi, i piatti

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Maestria sfacciata nel dominare cotture e consistenze, come nella coda di vitello al tamaro (un mix di spezie) e cavolo cappuccio in agrodolce (13 euro). Un taglio negletto reso suadente, lo stracotto sfilacciato si fa un tutt’uno con i morbidissimi frammenti di cartilagine, che sfiderei anche i più avversi alle frattaglie a non apprezzare. Gonfi di sapore nella loro essenzialità, gli gnocchi di zucca saltati in padella con crema di pecorino e salvia (13 euro) sono i più buoni a mia memoria, emergono senza sforzi apparenti. Poche pretese e moltissimo carattere.

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Regno di frattaglie, pezzi negletti, tagli poveri, da Trippa dominano i sapori forti e decisi. Il menu cambia continuamente, quello vigente in occasione della mia visita è relativamente poco estroso, senza concessioni allo strafare o allo stupire, e benissimo così. Dai piatti fuori carta “secondo l’umore dello chef”, non posso non buttarmi sulla trippa del giorno, cioè di pecora, in bianco con limone, pecorino, pancetta e porri (14 euro). Razza Brogna, una specie biodiversa dalle caratteristiche uniche. Scompare il sapore animale, si annullano le consistenze scivolose, è delicata e intensa insieme, sembra pasta fatta in casa.

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Forte e primario il richiamo alla terra pugliese e alle tradizioni caserecce, con le olive nolche, raccolte immature e quindi dolci e poco consistenti. Una passata in olio bollente come da tradizione, ed ecco pronto una sfizio da inizio pasto. Un divertissement bucolico che forse sarebbe più adatto come assaggino di benvenuto invece che un antipasto piuttosto abbondante (7 euro). Spalanca le porte delle langhe la tartare di fassona in olio di nocciole (12 euro). Abbinamento scontato ma risultato disarmante.

Diego Rossi si pavoneggia tra i tavoli e si compiace degli omaggi degli ospiti. Istrionico, selfie-oriented, è la star naturale che raccoglie applausi tra gli spettatori, cioè gli ospiti. Che in effetti sono anche spettatori, perché Trippa è un po’ teatro, palcoscenico. I tavoli si svuotano dei clienti il cui turno scade e si riempiono dei nuovi arrivi con sincronismo rapido e preciso, come cambi di scenografia tra un atto e l’altro. Si incrina così un poco la costruzione della spontaneità, della convivialità estemporanea e autentica.

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Ma è pecca minore, come perdonabile è il nostro rosso delle Dolomiti (Teroldego Foradori 2018, 28 euro) servito troppo freddo, perchè è più che buono e ha dietro una bella storia di viticoltura indipendente e irriverente. Scoccia un po’ di più invece la brigata di sala gentile ma spesso impreparata, che lascia l’illustrazione competente dei piatti solo a un paio di senior, non sempre raggiungibili nonostante le sbracciate.

Tornerei tutte le settimane, e non mi capita quasi mai di pensarlo dei posti che visito. Ne vorrei uno così in ogni quartiere, e questa sembra una prospettiva non troppo irrealistica. Trippa sta giustamente e prevedibilmente creando un modello a Milano, un’onda lunga che inizia a incresparsi e che già conta alcuni emuli (sto pian piano cercando di individuarli, inizierò a parlarne presto spero). Contagio benefico, emulazione più che benvenuta.

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Informazioni

Trattoria Trippa

Sito internet: trippamilano.it
Indirizzo: Via Giorgio Vasari, 1, 20135 Milano MI
Orari di apertura: Aperto tutti i giorni solo a cena tranne la domenica
Tipo di cucina: italiana, moderna ma non sofisticata
Ambiente: semplice e caldo con atmosfera vintage
Servizio: Cordiale un po’ sbrigativo

Voto: 4,5/5