Dal 19 al 22 settembre si svolgerà a Bra (CN), la 15esima edizione di Cheese, l’evento organizzato da Slow Food che ogni due anni riunisce i migliori artigiani del formaggio provenienti da tutto il mondo e trasforma la cittadina piemontese in un contesto unico, in cui arte casearia, cultura, temi ambientali ed economici convivono insieme. Se i numeri di quest’anno sono notevoli – oltre 400 espositori da tutta Italia e da 13 Paesi, oltre 350 eventi – è il tema scelto a rappresentare un buon motivo per partecipare: con il titolo “C’è un mondo intorno”, la manifestazione invita a riflettere sul valore racchiuso in ogni formaggio a latte crudo.
In vista dell’appuntamento di Bra abbiamo pensato di racchiudere la ricchezza di questa arte casearia in 5 argomenti, che ne evidenziano la superiorità rispetto ad una lavorazione con latte pastorizzato.
I formaggi a latte crudo raccontano la nostra identità gastronomica

Si deve ad un illustre geografo, Jean-Robert Pitte, membro dell’Académie des Sciences Morales et Politiques ed ex Presidente dell’Università Paris IV, il merito di aver coniato qualche anno fa un concetto di grande efficacia, quello di “mangiare geografico”, che sintetizza bene il valore identitario del cibo locale e la consapevolezza che la varietà territoriale e quindi produttiva costituisce fonte di ricchezza e di forza.
Quando si assaggia un formaggio a latte crudo si mangia letteralmente un territorio e la sua identità gastronomica. E non si tratta certo solo di produzioni di nicchia: l’universo latte crudo comprende – limitandosi al contesto nazionale – molte DOP che raccontano buona parte della nostra storia, e non solo casearia: Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Puzzone di Moena, Montasio, Fiore Sardo, Caciocavallo Silano, Strachitunt, Castelmagno d’Alpeggio. Di fatto la molteplicità dei formaggi italiani lavorati in questo modo, è in grado di costruire una vera e propria “carta geografica” del nostro paese, che corre parallela a quella tradizionale.
Ogni formaggio è un pezzo unico

Le variabili che influiscono sulla lavorazione a latte crudo sono molteplici: modalità e stagione in cui gli animali vengono nutriti, scelta del tipo di alimentazione (pascoli, prati-pascoli, prati, foraggi, fieno), conoscenza delle razze e delle loro caratteristiche. Tutto ciò contribuisce a definire un quadro di grande complessità e, conseguentemente, ci fa capire quanta competenza sia necessaria per realizzare un prodotto che la pastorizzazione renderebbe uniforme.
Chi lavora a latte crudo decide di dare forma alla complessità, di portare il latte alla sua massima potenzialità. In un sonetto composto fra il 1538 e il 1544 e dedicato a Vittoria Colonna, Michelangelo scriveva “L’ottimo scultore non concepisce un’idea che il solo marmo non contenga già in sé”: l’artigiano del latte crudo fa esattamente lo stesso, ma con una materia prima diversa. Il risultato è ogni volta un pezzo unico, che porta la firma del casaro.
Il latte crudo è la diversità contro l’omologazione

Da circa un anno la filiera del latte è al centro di una riflessione sulla gestione e il controllo dei microrganismi patogeni. I problemi causati da alcuni ceppi di Escherichia coli Stec, rintracciati in alcuni formaggi a latte crudo, hanno sollevato un acceso dibattito. Nei mesi scorsi, un tavolo di lavoro costituito presso il Ministero della Salute ha prodotto delle nuove linee guida per il contenimento del rischio causato dalle contaminazioni da Escherichia coli STEC. L’Associazione Rurale Italiana (ARI) ha replicato alle linee guida contestandone merito e metodo, e ritenendole una minaccia per l’intera sopravvivenza delle produzioni casearie artigianali italiane.
Il documento ministeriale viene indicato come una “raccomandazione pressante”, ma la paura da parte di molti produttori è che possa tradursi in norma. Come abbiamo già scritto, le norme che regolano la produzione di formaggi a latte crudo ci sono già: quello su cui si deve lavorare è la loro applicazione, la formazione dei casari e l’igiene degli animali e degli ambienti di lavoro. Pensare alla pastorizzazione, (che abbatte il rischio microbiologico collegato al consumo di formaggi a latte crudo – in particolare in soggetti con un sistema immunitario fragile – ma che di fatto annulla le specificità organolettiche del latte crudo) come soluzione non è semplicemente miope ma è indice di uno spostamento del focus del problema, affrontando insieme due concetti – quello della salute e quello della biodiversità – che non possono e non devono escludersi a vicenda.
Il latte crudo è un ecosistema complesso

Pensare ai formaggi a latte crudo come isolati dal loro contesto è riduttivo e limitante. Un formaggio non è solo latte ma anche biodiversità, risorse naturali (la gestione di prati, dei pascoli e degli animali), attività derivate (carne e lana), cura di boschi e foreste. E ancora, un sistema economico che ruota attorno a lavorazione e commercializzazione, e – con sempre maggiore evidenza – un sistema turistico (che si auspica possa svilupparsi in modo rispettoso).
Un’interconnessione che dimostra il valore di un ecosistema complesso, in cui ogni attività ha un ruolo cruciale. Si fa un gran parlare di spopolamento della montagna e delle aree interne e di conseguenti iniziative di sostegno. Salvaguardare la filiera a latte crudo è un modo lungimirante di dare concretezza a questi progetti.
Una questione di gusto

Un formaggio a latte crudo è il risultato del “lavoro” di famiglie di fermenti di tanti ceppi diversi, gli stessi che sono responsabili dell’ampiezza del suo valore sensoriale. Ecco perché dal punto di vista organolettico e di gusto è superiore ad un formaggio ottenuto da latte pastorizzato, che finirà irrimediabilmente per essere meno articolato, più uniforme e più “piatto”.
La sociologia dell’alimentazione ci insegna da decenni che mangiare non è mai un atto privo di conseguenze e implicazioni: è stato detto che mangiare è un atto agricolo e politico ma, forse, per descrivere il valore del latte crudo e di un’intera filiera culturale, guardare al lascito di Lévy-Strauss – secondo cui affinché un alimento “sia buono da mangiare bisogna che sia buono da pensare” – è la cosa più sensata che possiamo fare.