Cioccolato equo e solidale: i limiti delle certificazioni fairtrade

Comprare cioccolato equo e solidale ci rende persone migliori, ma solo se conosciamo le certificazioni. Cerchiamo di fare chiarezza nel fairtrade, che qualche volta ci fa fare pace solo con noi stessi e poco con il mondo.

Cioccolato equo e solidale: i limiti delle certificazioni fairtrade

Parlare di commercio equo e solidale, nel caso specifico riferito al mondo del cacao e del cioccolato, conduce spesso a muoversi lungo un’unica chiave di lettura, quella dello sviluppo sostenibile e del rispetto del lavoro che garantiscono una remunerazione adeguata ai produttori. Quasi mai si parla di qualità, di tecniche di lavorazione e di bontà del prodotto, preferendo concentrarsi su aspetti economici ed etici, escludendo quelli “gustativi”.

Una questione di priorità, che abbiamo imparato a mettere in ordine attraverso i marchio fairtrade che oramai riconosciamo con disinvoltura. Ma se scoprissimo che quella certificazione di eticità, a fronte della quale siamo disposti a mettere in secondo piano le caratteristiche organolettiche, avesse qualche limite di troppo?

Proviamo a fare luce sulle debolezze dei meccanismi di certificazione indipendente e sul modo in cui le multinazionali stiano facendo a gara a chi sia più green, ma anche su come si possa ragionare in termini qualitativi anche nel settore del cioccolato equo e solidale. Uno dei più gettonati, ça va sans dire, nell’ambito del fairtrade, poiché la sua materia prima, per antonomasia, proviene dai Paesi in via di sviluppo.

Cosa ci dicono marchi e certificazioni

World Fair Trade Organization

 

Poco fa abbiamo parlato di marchi e certificazioni e di come l’apposizione di un bollino (meglio se verde e con richiami all’idea del lavoro manuale) infonda nel consumatore l’idea che il prodotto che sta comprando sia, sotto i profili etico e ambientale, privo di macchia. È davvero così?

Nella Carta Europea del commercio equo e solidale si legge che “Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio convenzionale; esso promuove giustizia sociale ed economica, sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per l’ambiente, attraverso il commercio, la crescita della consapevolezza dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica. Il Commercio Equo e Solidale è una relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori”. E a voler fare riferimento alla normativa UE (risoluzione 198/98/CE del Parlamento Europeo, Comunicazione della Commissione al Consiglio sul Commercio Equo e Solidale, COM. 1996/619 e la relazione della Commissione per lo sviluppo e la cooperazione del 26 maggio 1998 ) quello che ci si presenta è la visione idilliaca di un mondo del commercio in cui minuscoli agricoltori dalle mani brune e callose riescono a produrre materie prime, cacao in questo caso, vendendolo nel mercato internazionale, guadagnandoci e raggiungendo la tavola del consumatori “consapevoli” dall’altra parte del globo. Per dirla alla Pangloss, insomma, “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. È una visione realistica? La vita è davvero così meravigliosa?

Di commercio equo e solidale si comincia a parlare a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e l’idea di creare un marchio distintivo dei prodotti acquistati a condizioni eque comincia a prendere forma con la nascita nel 1988 di “Stichting Max Havelaar” organizzazione dei Paesi Bassi per la promozione del marchio Max Havelaar, che istituisce un registro dei produttori di caffè e che concede l’uso del suo marchio agli importatori e distributori di caffè che si impegnano a rispettare e regole del Commercio Equo. Il modello si diffonde, nascono TransFair International e Fairtrade Foundation e dal caffè il mercato si allarga a cacao, tè, zucchero, miele, banane e succo d’arancio.

Oggi Fairtrade International, nata nel 1997, è l’organizzazione internazionale non profit responsabile del marchio FAIRTRADE®, capofila del sistema Fairtrade e di fatto la più grande organizzazione mondiale ad aprire la strada ad un percorso di responsabilità condivisa tra gruppi del nord e sud del pianeta. La certificazione garantisce che i prodotti che recano il marchio Fairtrade siano stati realizzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori in Asia, Africa, America Latina e siano stati acquistati secondo i criteri del commercio equo, ovvero assicura ai produttori dei Paesi in via di sviluppo il pagamento di un prezzo minimo equo e stabile (Fairtrade Minimum Price) e un margine di guadagno aggiuntivo da investire in progetti sociali e sanitari per le comunità e il rispetto delle colture locali (Fairtrade Premium).

Fairtrade International si compone di oltre 20 organizzazioni responsabili della promozione e della commercializzazione dei prodotti Fairtrade all’interno di aree di competenza nazionali. Il rispetto degli standard Fairtrade da parte delle organizzazioni di agricoltori/lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, trader e aziende di trasformazione è verificato dagli ispettori dell’ente di certificazione FLO-Cert.

Nel corso degli anni, tuttavia, il sistema di certificazione a cominciato a mostrare limiti e crepe. Relativamente al mondo del cacao, inchieste e reportage televisivi (un punto di riferimento rimane sempre Report e una puntata trasmessa qualche anno fa) hanno infatti dimostrato non solo come l’apposizione del marchio Fairtrade non garantisca che tutte le materie prime siano certificate, ma anche come, proprio conoscendo l’appeal etico-ambientalista che le certificazioni hanno sui consumatori, le grandi multinazionali non solo stiano compiendo operazioni di greenwashing sempre più raffinate e annuncino riconversioni a coltivazioni di cacao sostenibile, ma come stiano progressivamente abbandonando i riconoscimenti indipendenti per dotarsi di autocertificazioni interne, con nomi che loghi che aumentano considerevolmente la confusione nei consumatori.

Percentuali: quanto siamo fair trade?

Quando acquistiamo una tavoletta di cioccolato a marchio equo e solidale, lo facciamo perché siamo convinti che tutti i prodotti della filiera rispettino le caratteristiche. La realtà è un po’ più articolata: accanto a prodotti mono-ingrediente (banane, caffè, frutta) infatti, in cui il tracciamento è possibile lungo tutta la filiera, ce ne sono altri con più ingredienti, per i quali non è detto che sia possibile seguire lo stesso percorso di controllo della tracciabilità. Il caso di Fairtrade è significativo tanto che ha portato ad uno sdoppiamento del marchio, con il classico FAIRTRADE e il nuovo marchio con modello FSI – Fairtrade Sourced Ingredient, in cui solo alcuni ingredienti sono certificati.

Dubbi? Sì, perché il cioccolato non è un prodotto mono-ingrediente. Ci vengono in aiuto le Faq, che tuttavia ci lasciano l’amaro in bocca. Si legge infatti che

Sulle confezioni di cioccolato, biscotti, gelati e dessert, etc. il Marchio FAIRTRADE indica che almeno il 20% degli ingredienti proviene da organizzazioni di produttori certificati. Il marchio può quindi essere applicato, ad esempio, a una barretta di cioccolato in cui cacao e zucchero certificati sono almeno il 20% degli ingredienti. In questi casi, la certificazione assicura che siano stati rispettati i diritti dei lavoratori e sia pagato il prezzo minimo rispetto alle materie prime per le quali sono stati elaborati gli Standard internazionali Fairtrade (ad esempio caffè, cacao, banane, zucchero).

 Un prodotto realizzato con più ingredienti può recare il Marchio di certificazione FAIRTRADE se sono Fairtrade tutti gli ingredienti che possono essere certificabili, e se il totale degli ingredienti Fairtrade che lo costituiscono raggiunge almeno il 20% in relazione al peso complessivo (o volume). L’acqua o i latticini aggiunti possono essere esclusi dal calcolo se rappresentano più di metà del volume complessivo. È il caso ad esempio di biscotti, tavolette di cioccolato, yogurt e altri prodotti.

In alcuni casi, nelle filiere dello zucchero, del cacao, dei succhi d’arancia e del tè, al momento del raccolto c’è la possibilità per gli agricoltori di conferire il prodotto ad aziende che lo preparano per l’esportazione in tempi brevi, e lo lavorano, in alcuni casi, senza separarlo da quello ricevuto da agricoltori non Fairtrade.

Solo poche cooperative dispongono dell’attrezzatura necessaria per una lavorazione autonoma. Per le altre, una trasformazione separata in fabbriche “dedicate” comporterebbe dei costi aggiuntivi troppo alti e di conseguenza renderebbe i prodotti troppo cari, ponendoli fuori mercato, senza alcun beneficio per le organizzazioni stesse.

In altri casi, invece, anche nei Paesi più sviluppati, gli impianti di trasformazione del prodotto finale (cacao, zucchero) lavorano a ciclo continuo o richiedono trasformazioni complesse. Questo porta a mescolare, in fase di lavorazione, lotti Fairtrade con quelli non Fairtrade. Anche in questi casi la separazione fisica dei singoli lotti di produzione o l’impiego di cisterne “dedicate”, aumenterebbe ulteriormente i costi di produzione.

Quindi non si pone solo un problema di quantità sul totale, che peraltro consente per esempio ad una multinazionale di apporre sulla propria etichetta un marchio equosostenibile, mostrando il proprio volto etico al consumatore, quando in realtà ciò che viene certificato è solo una parte di un singolo prodotto e non tutta la produzione, ma anche una difficoltà – se non impossibilità fisica – di separare i lotti produttivi (i produttori di cioccolato evitano cosi di avere due catene separate di produzione e ridurre il costo di produzione di un cioccolato certificato sostenibile).

In quest’ultimo caso un tentativo di soluzione è stato realizzato, introducendo il bilancio di massa.

Il “bilancio di massa” (o mass balance) è un’operazione legata ai “passaggi” della materia prima lungo alcune filiere, che non intacca in nessun modo la tracciabilità documentale dei prodotti e i benefici di cui gli agricoltori godono grazie al sistema Fairtrade: il pagamento del prezzo equo e del premio Fairtrade in base alle quantità di prodotto conferite dai produttori sono sempre garantiti.

Fairtrade, come altri certificatori, usa un tipo di tracciabilità documentale chiamato “bilancio di massa” per assicurarsi che gli agricoltori e i lavoratori riescano a vendere il proprio raccolto come Fairtrade. Con il bilancio di massa, le aziende possono mescolare prodotto Fairtrade e non-Fairtrade durante il processo di lavorazione, a patto che i volumi effettivi venduti come Fairtrade siano tracciati e controllati con audit lungo la filiera e risultino equivalenti in termini di quantità e qualità ai volumi acquistati come Fairtrade.

 Se il prezzo equo è garantito, meno lo è il prodotto, però: si passa quindi da una tracciabilità “fisica” ad una tracciabilità “documentata”, in cui il consumatore non sa, di fatto, cosa acquista. Le conseguenze di un cortocircuito partito con buoni intenti sono evidenti nel caso – contestato – Max Havelaar e della trasformazione delle regole di certificazione.

Come se non bastasse, uno studio pubblicato a maggio 2018 a firma della prof.ssa Genevieve LeBaron dell’Università di Sheffield, intitolato The global Business of Forced Labour sostiene che ben il 95% dei lavoratori delle piantagioni di cacao non sappiano se la piantagione dove stanno lavorando sia o meno certificata. La questione delle certificazioni si complica ulteriormente se accanto all’equosolidale si affrontano problematiche legate a deforestazione e lavoro minorile.

La coltivazione del cacao, pur cruciale per l’economia di gran parte dei paesi produttori, è causa di deforestazione: si stima infatti che Costa d’Avorio e Ghana abbiamo già perso il 90% delle loro foreste. La risposta dei giganti della trasformazione non si è quindi fatta attendere, portando ad una conversione sulla via della sostenibilità: Mars annunciava qualche anno fa l’obiettivo del 100% di cacao certificato nel 2020 (per il momento siamo fermi al 20%) e Barry Callebaut sta sviluppando un programma per sostenere i produttori in un processo di rispetto dell’ambiente. Ovviamente sono spuntati nuovi loghi e nuove certificazioni: FSC (Forest Stewardship Council), UTZ, Rainforest Alliance e Organic, in una moltiplicazione di riconoscimenti che rende impossibile al consumatore sapere chi certifica cosa. Non va molto meglio con il lavoro minorile, che rappresenta ancora la maggior parte delle condizioni nelle piantagioni: anche in questo caso non sono mancati programmi e protocolli. All’inizio degli anni 2000 gli Stati Uniti hanno attuato il protocollo Harkin Engel con il quale otto società nel settore del cioccolato e del cacao, tra cui ADM, Barry Callebaut, Cargill, Ferrero, The Hershey Company, Kraft Foods, Mars, Incorporated e Nestlé, hanno promesso 2 milioni di dollari per una partnership pubblico-privato ILO: gli intenti, pur lodevoli, sono limitati e i risultati pure. Nel corso del tempo si son succedute altre iniziative sulla stessa linea e se avete buona volontà di spulciare tra i documenti pubblicati dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO, appunto), troverete risposte non incoraggianti. Anche l’Unione Europea si è mossa (finanziando per esempio il progetto “Trade Fair Live Fair”) e nonostante l’approvazione, nel 2012, da parte del Parlamento di una risoluzione sulle forme di lavoro minorile nelle aree di coltivazione del cacao, la situazione è addirittura peggiorata.

Chi certifica chi: le autocertificazioni

Cocoa Plan Nestlè

Se inizialmente la consapevolezza circa l’appeal delle certificazioni sulle scelte di consumo ha condotto le multinazionali ad una corsa ambientale, negli ultimi anni si assiste a qualcosa di più raffinato: sfruttando proprio la moltiplicazione dei loghi, la confusione che ne scaturisce e l’impossibilità dei consumatori di distinguere enti certificatori indipendenti, la tendenza è quella di abbandonare la certificazione indipendente adottando standard interni, che in genere si adattano molto meglio agli scopi aziendali.

Se in Inghilterra ha destato molto clamore il caso Sainsbury’s e quello della tavoletta Green & Black’s, altre operazioni sono state compiute più “discretamente”: è il caso di Mondelez, che ha ritirato molte delle sue barrette di cioccolato, tra cui Dairy Milk, dal commercio equo e solidale e ha adottato uno schema di certificazione interno chiamato “Cocoa Life”; di Nestlé che ha lanciato un programma simile, “Cocoa Plan”, di Barry Callebaut con “Cocoa Horizons” e Cargill “Cocoa Promise”. Come se ne esce? Un modo c’è e per scoprirlo bisogna tornare in Italia.

Chocofair: l’etico che mette insieme connessioni virtuose, sviluppo tecnologico e (finalmente) qualità

Anche a patto di essere consumatori di cioccolato informati e scrupolosi, che conoscono a memoria loghi e certificazioni, ad un certo punto dell’assaggio equo-solidale ci si trova comunque davanti ad un’impasse, fondata su un dato di fatto che bisogna riconoscere guardandoci negli occhi e promettendoci onestà: il cioccolato equosolidale, spesso, non è propriamente specializzato in aromaticità. Nella maggior parte dei casi, il cacao viene conferito ad un trasformatore industriale che si occupa della lavorazione: la qualità quindi è la stessa della fabbrica che ha lavorato il prodotto: standardizzata. Ci sono delle eccezioni felici, certo, che rendono ancora più evidente come si debba distinguere fair trade (che definisce la pratica del commercio equosolidale, appunto) da Fairtrade, che è un marchio (con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo ricordato): Altromercato (la realtà principale sul territorio), Altraqualità (cooperativa con sede a Ferrara fondata nel 2002), Scambi sostenibili (nata a Palermo nel 2001 proseguendo il lavoro compiuto dalla cooperativa Macondo), Ad-Gentes (associazione nata a Pavia nel 1993) sono tra gli esempi più significativi, osservando il lavoro dei quali si riesce a capire la differenza tra una tavoletta equosolidal-industriale (passateci l’espressione: stiamo sintetizzando in forma estrema) ed una equosolidale-artigianale. In una avrete – se va bene e se non ci sono errori di lavorazione – una monodimensionalità aromatica, nell’altra un’esperienza sensoriale articolata e complessa. Qualche esempio concreto: la tavoletta di cioccolato monorigine inserita nella confezione di Natale di Emergency, un puro fondente all’italiana al 70% che al valore etico (da piantagioni sottratte alla coltivazione della coca) lega una qualità organolettica superiore che spicca per le sue note di miele e anacardo; tutta la linea di 6 tavolette monorigine (all’interno delle quali anche un introvabile Filippine Davao e un Sierra Leone selvatico della Gola) lavorate in Sicilia senza concaggio dalla Macondo di Palermo (importatore di commercio equo specializzato in presidi Slow Food, che opera da 25 anni ) ed infine il caso di Arcobaluovo, un uovo di cioccolato dalla confezione pregiata, che dal 1997 rappresenta il lavoro di Ad–Gentes, associazione equosolidale di Pavia, che usa come ingrediente principe un cacao della Costa D’Avorio prodotto da sola genetica della regione del Bandama, famosa per le note spiccate di cocco e pane tostato, con l’obiettivo di combattere lo sfruttamento, andando a braccetto con un processo di lavorazione e controllo di filiera a cura di Domori.

Se questi sono però casi singoli, un progetto ben più ampio e strutturato, che rappresenta una sorta di case history, è quello di Chocofair. Si tratta di rete di consulenza fondata nel 2013 con l’obiettivo di consentire la creazione di filiere dirette, che mettano a contatto i produttori di cacao e i produttori di cioccolato di qualità, garantendo un giusto compenso da entrambi i lati, rispetto del lavoro e uno sviluppo sostenibile legato all’uso di cacao naturali, che non hanno necessità di occupare terreni vergini (quello che all’inizio avevamo definito come “il migliore dei mondi possibili”, ricordate?), inoltre la rete si occupa di incentivare la conoscenza del mondo del cacao attraverso un passaggio di competenze e una consapevolezza semplice: un prodotto di qualità superiore permette alle papille gustative di entusiasmarsi e svegliarsi, giustificando quindi il pagamento di un prezzo superiore. Anima del progetto è Andrea Mecozzi, selezionatore di cacao e consulente: dopo una prima ed isolata esperienza con gruppo di ragazzi di Costa D’Avorio, Togo, Repubblica Ceca e Italia, decide di dar vita ad un’idea più strutturata e ambiziosa, al limite dell’utopico: quella cioè di sviluppare filiere dirette, consentendo a cacao normalmente fuori mercato per la grande industria (i cacao naturali, aromatici, da piantagioni sostenibili, o coltivati da famiglie o cooperative etiche) di accedere al mercato internazionale.

Nasce così Chocofair, che rispetto alla visione tradizionale dell’equosolidale ha un tratto propositivo, per così dire: non si limita cioè a garantire compensi equi e pagamenti di premi di produzione legati al miglioramento colturale e sociale dei territori sui quali operano le cooperative, ma si impegna anche a fare formazione affinché i produttori possano migliorare le selezioni della materia prima, così da poter accedere a mercati di qualità. Agricoltori africani in grado di competere con i grandi artigiani del cioccolato quindi? Sì, senza sorriderne ingenuamente. Tanto è vero che fanno parte della rete realtà presenti in tutto il mondo (Scay-scoops in Costa d’Avorio, ChocoTogo in Togo, Riserva della Gola in Sierra Leone e Choco+ in Costa d’Avorio) e tanto è vero che alla formazione si è affiancato uno sviluppo tecnologico, che consente a tutti i partner di produrre in loco il cioccolato. Destinatari della formazione, inoltre, non sono stati solo i produttori di cacao di Africa e Sudamerica, ma anche cioccolatieri e gelatieri italiani, creando quindi un rapporto diretto e senza intermediari, né in fase di compravendita né in fase di selezione. Se un tempo la bontà dell’equosolidale era sinonimo di eticità, possiamo finalmente coglierne l’accezione originaria e parlare di equosolidale di qualità.