Creme spalmabili del mondo: how do you say Nutella?

Di Nutella ce n'è una sola, per noi italiani. Al netto della notorietà del marchio piemontese, esistono molte creme spalmabili nel mondo diventate oggetto culturale nazionale.

Creme spalmabili del mondo: how do you say Nutella?

Acceccati dalla superiorità della nostra Nutella su qualsiasi altra crema spalmabile del mondo, incapaci di pensare che oltre al binomio dolce cacao-nocciole ci sia altro e che soprattutto – qualora questo “altro” esista – sia “buono come” la Nutella, innalzando la crema piemontese a termine di paragone per qualsiasi prodotto possa sdraiarsi lascivo su una fetta di pane, non ci accorgiamo che ci sono altrettanti prodotti in grado di competere con la fu Supercrema del 1951, poi anglicizzata e resa accattivante dall’aggiunta di quel nut e del morbido suffisso nell’anno 1963.

Non stiamo parlando di bontà, ovviamente, giacché l’antropologia culturale e alimentare ci insegnano che le preferenze non hanno a che fare solo con la natura e la fisiologia, ma sono soprattutto una questione socio-culturale. Stiamo parlando piuttosto di identità e del valore che un popolo assegna al cibo.

Ecco che allora il presunto primato della Nutella deve essere rimesso in discussione, non certo in termini di successo economico visto che resta la più venduta al mondo, ma in termini di identificazione nazional-popolare. Esistono quindi una manciata di nutelle, nel mondo, in cui ci si riconosce, simboli alimentari che condividono con la più nota piemontese storie di genesi artigianali e trasformazioni industriali, innovazioni tecnologiche e colpi di genio di imprenditori visionari, periodi di penurie belliche e diffusioni popolari, con un pizzico di salutismo.

Abbiamo messo in fila quindi una lista di creme spalmabili del mondo – dolci, molto molto dolci, salate, piccanti – in grado di competere con la Nutella quanto ad affetto (altrui). Preparate il pane.

Burro di arachidi

burro di arachidi

Nato nell’Ottocento come cibo ricostituente per i malati facoltosi che non potevano masticare, il burro d’arachidi è uno dei prodotti simbolo delle abitudini e dei gusti alimentari made in Usa.

La versione moderna (pare che già gli aztechi lavorassero le arachidi facendone una pasta) si deve a quattro inventori, che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 tra salutismo e innovazioni industriali fecero la storia del prodotto. Al farmacista canadese Edson si deve il brevetto di un processo di macinazione delle arachidi tostate con l’aggiunta di zucchero; nel 1895 il dottor Kellogg – quello dei cereali, sì – brevettò per i pazienti del suo esclusivo centro di cura – il Battle Creek Sanitarium – un burro salutare e calorico derivante dalla arachidi.

Nel 1894 è la volta di George Bayle, di St. Louis in Missouri, che vendette per primo il burro di arachidi come snack e nel 1904 lo presentò all’Esposizione Universale della città. Nello stesso anno Ambrose Straub, aveva messo a punto una macchina rendere “industriale” la lavorazione: a breve le aziende Beech-Nut e Heinz commercializzarono il burro di arachidi in tutto il paese.

Considerate inizialmente un cibo per animali e poveri, e usate per la produzione di olio, le arachidi – la cui coltivazione venne introdotta in Usa dall’agronomo afroamericano Washington Carver – vennero sdoganate con la guerra di Secessione, quando i soldati le mangiavano come fonte di proteine. La popolarità crebbe con i venditori di strada, che le proponevano al pubblico del circo Barnum e a quello delle partite di baseball.  Una serie di invenzioni – macchinari che le ripulivano automaticamente da bucce e pellicine, e soprattutto, negli anni ’20, il processo di idrogenazione che né garantì conservazione e consistenza solida – ne decretò definitivamente il successo, con una diffusione capillare. Da qui, la concorrenza tra 3 grandi aziende: Jif, Skippy e Peter Pan, che nel 1928 fu la prima a produrre burro d’arachidi a livello nazionale, per merito di Joseph Rosefield, che tuttavia nel 1932 fondò una sua azienda, Skippy, che alla fine degli anni Quaranta superò Peter Pan nelle vendite e nelle preferenze degli americani fino agli anni Ottanta.

L’anno chiave è tuttavia il 1955: Procter & Gamble compra Big Top, un marchio di burro d’arachidi del Kentucky, cambia la lavorazione (usando olii diversi oltre a quello di arachidi e aggiungendo zucchero e melassa) e lo chiama Jif. La competizione con le rivali e la modifica del procedimento di lavorazione spinse nel 1971 la Food and Drug Administration ad intervenire, stabilendo che il burro d’arachidi debba contenere almeno il 90% di arachidi. Ancora una volta fu Jif, con una astuta campagna pubblicitaria, a sbaragliare la concorrenza. Da 30 anni è l’azienda che vende più prodotti a base di burro di arachidi negli Stati Uniti e quella che batte tutti nelle prove d’assaggio. Tra i comfort food nazionali, pare che il consumo – dopo un periodo di lieve calo – abbia ripreso a correre dopo la crisi del 2008.

Vegemite

Vegemite

È probabilmente l’unica di questo elenco ad assurgere a simbolo nazional-identitario tanto quanto la nostra Nutella. Eppure l’Australia, paese d’origine di questa crema salata spalmabile, ci ha messo un po’ ad innamorarsene. La storia rimanda all’inizio del secolo scorso e alle innovazioni in campo alimentare derivanti dalla combinazione di progresso industriale e visioni salutistiche: nel 1902 in Inghilterra viene inventata la Marmite, a base di estratto di lievito di birra (la trovate più sotto), poi esportata in Nuova Zelanda nel 1908 dove sorse anche uno stabilimento di produzione. Nel 1922 Fred Walker, imprenditore australiano del settore alimentare, con l’obiettivo di fare concorrenza al prodotto inglese (e quindi con la stessa idea di base e cioè che fosse possibile ricavare un alimento dal lievito di birra in eccesso) incarica Cyril P. Callister, chimico e tecnologo, di mettere a punto una versione autoctona del Marmite. Pochi mesi, ed ecco Vegemite (il nome venne scelto dalla figlia di Walker, tra i tanti arrivati attraverso un concorso indetto dall’azienda).

Il marchio venne registrato l’anno successivo ma il successo si fece attendere: ci volle dapprima l’approvazione della British Medical Association, che nel 1939 stabilì che un uso quotidiano – grazie all’alta quantità di vitamine del gruppo B, facesse bene alla salute – e in seguito la Seconda Guerra Mondiale. Vegemite infatti venne inserita nelle razioni alimentari dell’esercito australiano, fattore che ne determinò la carenza nei supermercati e conseguentemente ne incrementò la popolarità.

Nel 1935 venne acquisita da Kraft ma nel 2017 la proprietà è passata al gruppo Bega Cheese Limited, riportando in patria l’amata crema. Oltre 22 i milioni di vasetti prodotti ogni anno, dei quali – giusto per farvi capire il livello di apprezzamento oltre i confini nazionali – solo il 2% venduti all’estero. Il gusto è infatti una prova per stomaci forti: se gli australiani sono capaci di mangiarla spalmata sul pane, per cucinare e pure infilando le dita nel barattolo come facciamo noi con la Nutella, il resto dell’umanità trova Vegemite a dir poco disgustosa: salata, pungente, praticamente un concentrato di umami (nonostante sia più dolce di Marmite). Sul sito del produttore trovate diverse ricette: auguri.

Marmite

Marmite

Scura, appiccicosa e dall’odore intenso: l’antenata di Vegemite risale al 1902 quando, a seguito degli studi dello scienziato tedesco Justus von Liebig sulla possibilità di estrarre e concentrare il lievito di birra riducendolo ad alimento, a Burton (nello Staffordshire, Inghilterra), la Marmite Food Extract Company commercializzò per prima il prodotto: la ricetta originale conteneva sale, spezie e sedano, ai quali vennero aggiunti successivamente acido folico, vitamina B12, tiamina e riboflavina in alte concentrazioni.

Venne inclusa nelle razioni dei soldati durante la prima guerra mondiale e, insieme a carne di manzo, Spam e latte condensato, divenne popolare tra i civili e le forze armate tra il 1939 e il 1945. Il nome ha origini francesi: indica una pentola di terracotta dalla forma caratteristica dentro la quale venivano vendute le prime creme spalmabili. Dal 1920 la Marmite viene commercializzata in barattoli di vetro ma resta traccia della pentola nell’etichetta. Lo slogan con cui viene accompagnata è “Love it or hate it”: provare per credere.

Se scoprite che l’umami fa per voi, sulla stessa linea di Vegemite e Marmite, la Svizzera vanta Cenovis, nato nel 1931 ancora una volta celebrandone il concentrato di vitamine.

Ovomaltina

Ovomaltina

O per meglio dire “Ovomaltine Crunchy Cream”, praticamente la versione svizzera della Nutella e traduzione in crema della celebre bevanda a base di malto d’orzo.

Originariamente sviluppata come “rimedio” destinato alle persone denutrite o deboli, conquistò rapidamente il gusto popolari grazie al concetto di alimento “sano e nutriente”: oltre all’estratto di malto gli ingredienti erano infatti uovo (ora scomparso) latte scremato, cacao e lievito. Nacque nel 1865 ma fu messa in commercio nel 1904: era ed è di fatto una polvere che mischiata al latte dà una bevanda tonificante e energizzante. Se in patria è considerata praticamente una bevanda nazionale, da noi quelli che la conoscono e l’hanno assaggiata (la sottoscritta), l’hanno fatto perché volevano provare l’ebbrezza di un concorrente del Nesquik. Il sapore è indimenticabile: una combinazione tra salato e dolce con le note del malto a incorniciare tutto.

L’amore per la bevanda ha spinto a crearne una versione spalmabile che sarebbe più adatta alla sezione “integratori alimentari” che a quella dei dolci: in etichetta compaiono minerali e vitamine in dosi massicce. La texture gioca sul contrasto cremoso e croccante, dato dai pezzetti di malto. È prodotta dalla Wander AG, del gruppo Associated British Food nei pressi di Berna.

Dulce de leche

Dulce de leche Havanna

Icona nazionale argentina al pari del tango e di Maradona, il dulce de leche è popolarissimo in tutta l’America Latina. La leggenda narra che il dolce sia nato per errore: a Cañuelas nel 1829 (l’11 ottobre, per la precisione, eletto a “dulce de leche day”), durante un incontro tra il generale Lavalle e il generale Juan Manuel de Rosas, una cameriera dimenticò una miscela di latte e zucchero sul fuoco. Il risultato fu la crema dolcissima e densa che conosciamo. Oltre la leggenda, tuttavia, ci sono ricerche storico-gastronomiche che ne spostano le origini in Cile e addirittura in Indonesia: secondo il giornalista argentino Víctor Ego Ducrot il dulce de leche ha avuto origine nel Capitanato generale del Cile, da lì ha raggiunto Cuyo e Tucumán, dove è stato utilizzato come ripieno per alfajores, biscotto nazionale. Gli studi di Patricio Boyle riportano, a sostegno della tesi, documenti che testimoniano come nel XVII secolo furono importati a Mendoza, dal Cile, diversi barattoli della crema a base di latte. Ma esistono resoconti anche in Brasile, nella seconda metà del 1700 e in Paraguay.

Lo storico argentino Daniel Balmaceda racconta invece che la prelibatezza è stata creata in Indonesia, nel sud-est asiatico, e da lì è stata portata nelle Isole Filippine, intorno al VI secolo, e da lì in America, entrando in Messico, espandendosi poi in tutto il continente.

É in Argentina tuttavia che il dulce de leche ha trovato casa ed è qui che è stato definito da una legge nazionale (Legge 18.284). La ricetta prevede due soli ingredienti e la bontà sta tutta nel far caramellare lo zucchero finché non si ottiene una crema bruna e densa. In Argentina se ne consumano 3,10 kg all’anno e se ne producono 128.000 tonnellate. Nonostante sia una preparazione semplice e casalinga, il dulce de leche è diventata una crema industriale, da accompagnare a gelati, biscotti, pane.

Cajeta (de Celaya)

cajeta

La Cajeta è la versione messicana del dulce de leche, il cui nome deriva trae origine dalle scatole (cajas) di legno nelle quali originalmente si conservava. Le differenza tuttavia non sono di poco conto: anziché il latte bovino, si utilizza quello di capra (dovuto alla presenza di notevoli allevamenti, in particolare nella zona di Celaya, appunto) zucchero di canna e cannella.

Le origini sono le stesse (cioè, trasversalmente, nella lavorazione di latte e zucchero) e geograficamente si collocano nella regione del “Bajio”. L’uso del latte caprino dà una consistenza ed un sapore diversi alla crema, di cui esistono 3 versioni classificate a seconda di sapori e ingredienti: cajeta quemada, quella tradizionale; envinada, che acquista un sapore di vino dovuto all’aggiunta di una leggera percentuale di alcool nella preparazione; de vainilla, più dolce e leggera, con l’aggiunta di vaniglia. Anche in questo caso fu il consumo tra i soldati durante la guerra di indipendenza del Messico a decretarne il successo.

Anko

Anko

Ripieno dei dorayaki giapponesi, l’anko è una confettura ottenuta facendo bollire i fagioli rossi azuki con lo zucchero bianco. Può essere preparata in due modi: nella versione Koshiban, cioè amalgamata e omogenea, o con i fagioli praticamente interi, e quindi più consistente e grezza. Quest’ultima versione si chiama Tsubuan ed è quella che costituisce la farcitura dei dorayaki. Si prepara lasciando in ammollo per una notte i fagioli, e poi facendoli cuocere a ripetizione cambiando l’acqua finché non diventano morbidi. Il processo viene chiamato shibunuki che significa “togliere il sapore acerbo e amaro”. Ridotti in puré con il frullatore o lo schiacciapatate, vengono fatti nuovamente cuocere con zucchero a fuoco basso, mescolando di continuo con un cucchiaio di legno, finché il composto non si addensa. Il sapore è leggermente dolce e vagamente acidulo: assomiglia a quello delle patate dolci o delle castagne. Oltre che come ripieno, si può servire fredda, come dolce al cucchiaio.

Amlou

amlou

Tipica del Marocco, è una crema a base di mandorle, miele e olio d’argan. Praticamente la versione marocchina e con mandorle della Nutella. Se nelle zone rurali si prepara con metodi tradizionali, ed è particolarmente apprezzata e diffusa tra le popolazioni delle aree montagnose e per tradizione commercializzata soprattutto nei suk del Souss, una delle principali regioni agricole del Marocco, ne esiste anche la versione industriale. Ha colore bruno e viene servita a colazione o a merenda, spalmata sul pane, accompagnata a prodotti di pasticceria o ancora, in sostituzione della pasta di mandorle, per la preparazione di impasti per prodotti da forno. Tradizionalmente viene consumata durante i banchetti di nozze e la medicina popolare sostiene abbia proprietà afrodisiache.

Sri Kaya

Srykaia

 

É una sorta di marmellata a base di cocco, uova e zucchero.  É molto diffusa e popolare nel sud-est asiatico, principalmente in Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia. L’origine è oscura: si pensa che sia stata portata dal Portogallo in Malacca durante l’occupazione nel XV secolo.  É infatti molto simile al doce de ovos (crema di uova e zucchero) tipico portoghese.

In lingua malese kaya significa ricco, in riferimento alla consistenza della crema. Ha consistenza dolce e cremosa, ed è aromatizzata con foglie di pandano. Il colore varia a seconda del colore dei tuorli, della quantità di pandano e dalla caramellizzazione. Si consuma spalmata sui toast, come condimento per dessert, in particolare quelli di riso o semplicemente mangiata a cucchiaini.

Crema Speculoos

Ci sono tre icone su cui i belgi non transigono e che costituiscono degli elementi di unità nazionale in grado di superare le divisioni interne: le patatine fritte, le moules-frites e i biscotti Speculoos. Se in patria sono conosciuti come tali e di fatto identificati nella Lotus, la maggiore azienda produttrice, all’estero sono noti come Biscoff, dall’unione delle parole biscotto e caffè.

Per capire il livello di attaccamento che i belgi hanno nei confronti del prodotto è utile leggere la reazione popolare di fronte alla recente decisione dell’azienda di cambiare il nome seguendo la linea internazionale. Inconfondibili nella loro confezione trasparente e con il marchio rosso e serviti in ogni caffè, non sono in realtà un biscotto originario del Belgio. Gli speculoos sono infatti comuni a un’area che va dalla Francia alla Germania (dove si chiamano spekulatius): croccanti e caramellati, sono preparati con farina, zucchero di canna, ed una combinazione di spezie che varia da paese a paese (cannella, noce moscata, chiodi di garofano, zenzero, cardamomo e pepe bianco). Si mangiano in occasione delle feste di Natale, in particolare per quella di San Nicolò.

Sulle origini del nome ci sono diverse ipotesi: alcuni citano il latino speculum, specchio, perché gli stampini di legno erano intagliati in modo speculare; altri la fanno risalire speculator, cioè osservatore, esploratore,  riferendosi a San Nicolò; altri ancora la ricollegano a species, spezie appunto. Come dicevamo, l’apprezzamento è tale che Lotus, azienda nata nel 1932 e che produce esclusivamente speculoos, ne ha realizzato una versione spalmabile, che contiene il 58% di biscotto. Popolarissima.