Filetto vegetale Vivera: Prova d’assaggio

La transizione vegetale passa anche dal filetto plant-based Vivera, il primo della sua specie trovato nei supermercati italiani. La nostra Prova d'assaggio, completa di prezzo, ingredienti, profilo sensoriale e opinioni.

Filetto vegetale Vivera: Prova d’assaggio

Rappresentazione del benessere anni ’80, il filetto incarna il concetto di elitarietà proteica e fastosità gastronomica. È stato proprio questo iconico e prezioso taglio di manzo a favorire ciò che potremmo definire reazione avversa, quella che ci ha portati alla “moda” BBQ e alle cotture alla brace, facendoci scoprire tagli alternativi per bistecche più saporite ed economiche. Trovarne versioni 100% vegetali in GDO mi fa sognare rivisitazioni di un Rossini o una Wellington, potevo farmi mancare la prova d’assaggio del primo filetto plant-based apparso a scaffale in grande distribuzione in Italia? Del resto, occorre assaggiare i pionieri per avere termini di paragone, no?

Vivera è un colosso olandese nato nei primi anni ’90, specializzato nella produzione di alimenti vegani e vegetariani: polpette, cotolette, lasagne, hamburger e appunto il nostro fake filetto, che fu presentato al mercato italiano come novità assoluta in occasione del Marca 2019 a Bologna, il salone internazionale dei prodotti a Marca del Distributore e seconda fiera di settore in Europa. Importato per la prima volta in Italia da Atlante, azienda che opera nel settore della GDO come partner strategico delle principali catene di supermercati italiane ed estere, è oggi presente in Esselunga, Coop, Bennet, Alì e Alìper, oltre che on line su numerose piattaforme.

La mission aziendale: fare leva sul nostro senso di colpa?

Curiosando sul sito dell’azienda possiamo attingere a numerose informazioni sulle scelte virtuose relative ad alcune delle materie prime utilizzate, ai progetti green sposati, più in generale alla filosofia e mission aziendale: “non è strano che nonostante siamo tutti così preoccupati dai cambiamenti climatici e odiamo il modo in cui vengono trattati gli animali continuiamo comunque a mangiare carne? Forse perché in fondo non ci interessa veramente?

E ancora: “Tutti pensiamo di avere una mentalità aperta, ma quando si arriva al dunque, spesso cambiamo atteggiamento. Anche quando si tratta di considerare un regime alimentare diverso, a base vegetale” Vivera ci invita a partecipare alla “veggie challenge” al grido di #eatopenminded, facendoci sentire un po’ ottusi e un po’ colpevoli. Non sono sicurissima sia la migliore delle strategie comunicative per avvicinare un carnivoro a questi prodotti, ma in fondo chi sono io per dirlo.

Ingredienti e prezzo

Ingredienti: 77% proteine vegetali idratate (acqua, 20% proteine del GRANO, 3% proteine de SOIA), oli vegetali (girasole, colza, in proporzione variabile), olio di cocco, aromi, addensante (metilellulosa), aceto, fibre vegetali (canna da zucchero, agrumi), coloranti (rosso di barbabietola, cartamo), amido (contiene GRANO), sale iposodico, acqua, erbe, spezie, sale, aglio in polvere, cipolla in polvere, funghi in polvere, ferro, estratto di malto d’ORZO, vitamina B12.

Prezzo: Confezione da 2 filetti (da 100 grammi ciascuno): 3,99 euro

Profilo sensoriale

L’aspetto da crudo ricorda una sorta di polpetta ovale e schiacciata, le opzioni per la cottura riportate in confezione sono tendenzialmente sempre le stesse, padella con un filo d’olio, oppure forno. Scelgo la prima. Il prodotto cotto si presenta come vedete in foto, l’aspetto ha una struttura simile a un wurstel, un polpettone, insomma quello di una proteina macinata finemente, e io mi sento un tantino presa per i fondelli. Dovrebbe ricordarmi un filetto?

Il profilo aromatico non migliora la situazione: l’odioso e assai ricorrente sentore di cartone (off-flavour abbastanza tipico delle preparazioni a base di soia) domina la scena, sullo sfondo sentori di paprika, note di pancetta affumicata e dado. In bocca la parte glutammica è sempre molto presente, seguita da una moderata salinità. Ma è la consistenza, come spesso accade, a farmi rimpiangere di averlo acquistato. Gomma. Nessuna traccia della cedevole e morbida fibrosità che dovrei ricondurre alla consistenza di un filetto. L’esperienza della masticazione è una discesa agli inferi del gusto. Il ricordo dopo la deglutizione è respingente.

Ma perché ostinarsi a imitare malamente prodotti di origine animale? Non sarebbe più sensato pensare a nuove esperienze di consumo totalmente slegate da ciò che abbiamo sedimentato e stratificato (in millenni) in termini di abitudini alimentari? Non sarebbe il caso di pensare a prodotti meno processati, e magari usare meno soia? Vorrei davvero essere quel consumatore che approccia il mondo plant-based per ragioni etiche e salutiste, ma il cortocircuito a volte è totale: non sono buoni, li percepisco come finti e ultra processati, e ho anche dubbi anche sul fatto che si possa parlare di reale sostenibilità. Copiare è sempre stata la strada più breve, siamo così certi sia quella giusta?

Sono riuscita a strappare qualche indiscrezione relativa alle vendite da un paio di buyer di due rispettive catene di supermercati in Veneto (non farò nomi per ovvi motivi). A quanto pare buona parte dei prodotti plant-based “fake qualcosa” rimangono invenduti, vano anche il tentativo di proporli scontati a ridosso della scadenza, finiscono nella spazzatura: “vendiamo prodotti vegetali che non si fingono altro, burger di spinaci, carciofi, cose del genere”. Se l’indicazione fosse rappresentativa dovremmo aspettarci cambi di rotta significativi rispetto alle proposte a scaffale nel prossimo futuro. Me lo auguro, perché se questo è il concetto di innovazione e transizione proteica che dovremo sorbirci in futuro, inizio immediatamente a fare scorta di legumi e tofu.