Le aziende produttrici di proteine alternative a base vegetale non se la stanno passando proprio bene: se da una parte il mercato sembra aver perso l’entusiasmo iniziale, e ad ammetterlo è la stessa Beyond Meat, dopo un crollo del 97 per cento del valore delle sue azioni, dall’altra le istituzioni del vecchio continente non sembrano voler tendere loro una mano, complicando le strategie commerciali e vietando l’utilizzo di etichette come “burger vegetale”, “salsiccia di tofu o vegana” e “steak plant-based”.
Il Parlamento Europeo infatti, riunito in plenaria a Strasburgo, ha approvato una significativa proposta, promossa dalla relatrice del Partito popolare europeo (Ppe) Céline Imart, che mira a vietare l’uso di terminologie tradizionalmente associate alla carne per descrivere i prodotti a base vegetale: l’approvazione è avvenuta con 532 voti favorevoli, 78 contrari e 25 astenuti, e introduce modifiche al regolamento sull’organizzazione comune dei mercati agricoli (Ocm).
Una votazione che sembra quindi portare l’UE a posizioni vicine a quelle auspicate dal Ministro Francesco Lollobrigida, nella sua turbolenta crociata che ha portato all’approvazione della legge 172/2023 -di fatto mai diventata operativa a causa della mancanza di un decreto attuativo necessario per la sua implementazione- e anche a quelle della Francia, unico paese dell’Unione in cui il divieto era concretamente attivo.
“Un hamburger è un hamburger”
L’obiettivo dichiarato dai sostenitori è duplice: proteggere i valori commerciali e garantire una corretta informazione per i consumatori: l’emendamento del Ppe definisce precisamente i termini “carne”, “preparazioni a base di carne” e “prodotti a base di carne”, stabilendo che tali denominazioni debbano essere riservate esclusivamente ai prodotti derivati dagli animali e include denominazioni come bistecche, scaloppine, salsicce e burger, ma anche tuorli e albumi d’uovo.
I promotori del nuovo regolamento non hanno dubbi: vedono in questa mossa un passo essenziale per la trasparenza. La relatrice Imart ha sostenuto che “chi produce il nostro cibo rappresenta la nostra identità” e che “un hamburger è un hamburger: dobbiamo chiamare le cose con il loro nome”. Anche l’europarlamentare Herbert Dorfmann ha sottolineato la necessità di agire “in una logica di coerenza con le normative europee, che già proteggono i termini derivati dai prodotti lattiero-caseari”. In Italia, associazioni di categoria come Coldiretti si sono schierate in prima fila a sostegno del divieto.
L’argomento, ovviamente, non ha mancato di scaldare gli animi, e le reazioni delle associazioni vegetariane e vegane non si sono certo fatte attendere: alcuni analisti e osservatori ritengono che dietro l’iniziativa vi sia l’influenza dell’industria della carne, timorosa di una riduzione della propria quota di mercato a favore delle alternative vegetali, un settore -secondo loro- in forte crescita. Diversi esponenti politici hanno definito la misura una «distrazione», sottolineando che i consumatori sanno perfettamente che un prodotto etichettato come «burger vegetale» non contiene carne: bisognerebbe ringraziarli per la stima e la fiducia nella nostra capacità di distinguere il manzo dai ceci.
A sostegno di queste posizioni sono stati portati i risultati di alcuni sondaggi tra consumatori europei che mostrano come quasi sette consumatori su dieci dichiarino di non avere problemi con i nomi che richiamano la carne, a condizione che l’etichettatura indichi chiaramente l’origine vegetale. Nomi tradizionali come “burger” o “salsiccia” sarebbero poi fondamentali per comunicare immediatamente al consumatore come cucinare e utilizzare il prodotto, ed eventuali nomi di fantasia otterrebbero invece l’effetto contrario, non fornendo un’indicazione di consumo contestuale all’acquisto.
C’è un altro punto di cui tenere conto: i produttori plant-based hanno i magazzini pieni di prodotto già etichettato, e i costi per la revisione di packaging, marketing e riposizionamento sugli scaffali sarebbero elevatissimi, in un periodo in cui anche i giganti del settore sono economicamente in crisi.
C’è ancora molto da definire
La decisione del Parlamento si pone in potenziale contrasto con una precedente sentenza della Corte di Giustizia UE dell’ottobre 2024, che di fatto invalidava anche il divieto in vigore in Francia. In quell’occasione, la Corte aveva infatti stabilito che uno Stato membro non può impedire ai produttori di utilizzare termini consuetudinari per commercializzare cibi plant based, a patto che l’etichettatura non sia ingannevole.
Tale sentenza aveva ritenuto la legislazione esistente “sufficiente per proteggere i consumatori da possibili inganni” e gli oppositori, tra cui l’associazione VEGANOK, ripongono in essa le proprie speranze, definendo la votazione come “una sconfitta per la democrazia europea” e una vittoria per gli interessi economici consolidati contro l’innovazione.
Il dossier passa ora ai “triloghi“, il tavolo negoziale tra Parlamento, Consiglio e Commissione che definirà la versione finale del testo e i tempi di applicazione. Solo dopo un accordo con gli Stati membri, la norma potrà diventare effettiva, forse dal 2028: la battaglia per la definizione delle regole di mercato per le alternative vegetali è dunque ancora in corso.