I mercati di Madrid vs i nostri: cosa possiamo imparare dall’esperienza madrilena

I mercati di Madrid funzionano bene se non benissimo pur accogliendo ristoranti, botteghe, eventi, negozi in un posto solo. Ci siamo fatti un giro nella capitale madrilena e abbiamo cercato di capire perché.

I mercati di Madrid vs i nostri: cosa possiamo imparare dall’esperienza madrilena

Questa che segue è una riflessione che ha i contorni della scoperta dell’acqua calda. Che infatti i mercati di Madrid (in generale della Spagna, qui avevamo raccontato i mercati andalusi) siano una destinazione rilevante almeno come i ristoranti di Copenaghen e le boulangerie parigine, è risaputo. Tuttavia è bene ribadire perché nella capitale della Spagna una serie di convergenze abbiano reso questi luoghi così vissuti e attuali, pur conservando formati diversificati e legami più o meno saldi con l’idea tradizionale di mercato comunale o rionale.

Partiamo col dire che i mercati di Madrid sono tanti e tutti diversi. Alcuni, come San Miguel, sono famosissimi e hanno un taglio più turistico. Altri, come San Fernando, sono situati in quartieri residenziali tanto da assurgere il doppio ruolo di essere punti di raccolta per il quartiere e luoghi di destinazione per l’intera città. Già perché a Madrid al mercato ci si va per fare un ampio spettro di attività: non solo mangiare o fare la spesa, ma anche organizzare feste, partecipare ad eventi, visitare mostre, comprare libri, fiori e altri oggetti.

C’è poi un ulteriore elemento: che molti di questi luoghi raccontano progetti architettonici, di design e comunicazione significativi anche per chi non è interessato al cibo. E lo fanno dalla mattina alla sera, talvolta anche di notte, con orari alternati e un pubblico eterogeneo che va dai giovanissimi, alle famiglie con bambini, agli adulti, fino agli anziani. Ma vediamo meglio di cosa stiamo parlando.

Mercato di San Miguel

Aperto nel 1916, San Miguel per molti è il più bel mercato di Madrid. Sicuramente il più turistico e il meno “mercato” di tutti. Data la sua iper-vicinanza al centro della città, qui si viene soprattutto per mangiare tapas, churros, cucina latina (il banco delle emapanadas è una batteria), per bere una birra. Ma per quanto riguarda la spesa, è meglio scegliere altre destinazioni. I prezzi sono leggermente più alti rispetto agli altri mercati e l’ambiente è più pettinato, circondato da quattro pareti di vetro che accolgono l’antica struttura in ferro, trasmettendo l’impressione di stare all’aperto pur essendo al chiuso.

San Miguel(3)

San Miguel(1)

Negli anni è diventato un vero paradigma del concetto di mercato gastronomico in tutta Europa e un “riflesso della diversità gastronomica spagnola”. Tuttavia l’esperienza del mercato inteso come piazza di quartiere dove fare spesa, dove incontrare il produttore e magari mangiare qualcosa, qui si perde. Più che normale se si pensa che moltissime fonti riportano che San Miguel accoglie 10 milioni di visitatori ogni anno.

Mercato di San Antón

Mercato San Antone

Sull’onda di San Miguel, San Antón nel quartiere Chueca, scelto dalla comunità LGBTQI+ come punto di riferimento in città, è il giusto compromesso tra concetto contemporaneo e storico di mercato. Con la sua architettura tripartita su tre piani, San Antón ha il primo piano adibito alla spesa in vere e proprie boutique alimentari, al secondo piano la zona dedicata allo street food, il terzo invece ospita un ristorante con terrazza. Al centro la struttura in ferro è spettacolare perché riesce ad agevolare l’ingresso della luce naturale creando un effetto spaziale circolare e avvolgente.

Mercato San Antonio(2)

Mercato San Anton(4)

Mercato San Anton(6)

Mercato San Anton(7)

Si può mangiare sia alla “barra” che comodamente seduti al ristorante. Insomma in un solo luogo insistono tre formati gastronomici completamente diversi dalla massima flessibilità. Al secondo piano si possono assaggiare tapas, baccalà, pollo, bbq, oltre a un corner dedicato alla cucina giapponese, Chuka Sando.

Mercato San Fernando

Mercato San Fernando

Uno dei più autentici tra quelli visti, in zona Lavapiés, San Fernando conserva bene la sua anima storica con la facciata quasi “residenziale” al cui interno ci sono botteghe, negozi alimentari, ristoranti, bar e chioschi di street food. Lo stile informale potrebbe spaesare un visitatore italiano, perché accanto a chioschi per mangiare con formule gastronomiche ibride (per esempio la taverna greco-germanica) o Bendito, il negozietto di vini naturali, convivono botteghe di carne, pesce, formaggi, pane, aperte secondo orari diversi.

Mercato San Fernando

Mercato San Fernando

Non è strano quindi sedere con una bottiglia di vino con un paio di tapas mentre i banchi adiacenti sono chiusi, come non è strano venire al mercato per fare aperitivo o cena. Allo stesso modo non dispiace l’idea di passare da un chiosco all’altro per provare cose diverse in una serata sola.

Mercato Vallehermoso

Mercado di Vallehermoso

Il giro dei mercati ha le potenzialità per durare ancora moltissimo. Un’ultima tappa potrebbe essere il mercato Vallehermoso che conserva uno stile d’impatto, con il giro di viuzze e botteghe che approdano a una sorta di piazza centrale dove si trovano alternate botteghe e ristoranti. Tra questi, due insegne particolarmente ambite: Batch, con vini naturali, fermentati e piatti d’ispirazione francese e spagnola, insieme con Tripea, un lungo bancone segnalato anche sulla Guida Michelin con una gastronomia che mixa cibo del Perù e del Sud-Est asiatico. Il fatto che queste due insegne siano all’interno di un mercato non le differenzia da un ristorante con accesso diretto su strada. Si prenota, si cena tra banchi di produttori e corsie coperte di sedute.

Fuori da questa rassegna parzialissima ci sono altre referenze che andrebbero prese in considerazione, anche se non tutte sono riuscite (almeno secondo me) nello stesso modo. In ogni caso si tratta di contesti variegati e diversi a seconda delle esigenze dei visitatori che hanno tantissimi punti di forza, uno fra tutti è quello di essere dei luoghi al coperto che possono diventare punti di ritrovo anche in paesi, come la Spagna e l’Italia, dove c’è una grande tradizione di vita sociale outdoor. Per capire perché i mercati madrileni sono così riusciti:

  1. La diversificazione degli orari non è percepita come un disservizio ma come una peculiarità di questi luoghi. Come anticipavo, non ci si sente a disagio a mangiare in un luogo parzialmente chiuso o parzialmente aperto. Questa flessibilità temporale, che in parte è lasciata alla discrezionalità delle insegne presenti (sul sito del Mercato di San Anton è spiegato che ogni piano risponde ad orari diversi, ma anche che le singole postazioni possono variare in modo autonomo) rende il mercato un luogo fruibile a qualsiasi ora del giorno, scardinando l’idea della spesa mattutina o della tappa a pranzo ma senza snaturarne l’esperienza.
  2. In quest’ottica il mercato torna ad essere anche un luogo d’incontro e di condivisione. Se non si va infatti per fare la spesa per un’insegna specifica, l’offerta rimane appetibile perché il contenitore assume un valore paritario rispetto al contenuto. Questa dimensione non esclude l’idea che anche al mercato si possa fare ristorazione di altissimo livello che lavora e funziona esattamente come un ristorante da strada.
  3. La fluidità dell’offerta, degli spazi e della clientela è davvero premiante. Proprio la clientela local o internazionale accetta il mercato nella sua natura giornaliera, espressa, quotidiana, talvolta irregolare nel tempo e nello spazio, ma comunque accogliente. In questo il mercato di San Miguel rappresenta una formula più istituzionalizzata di mercato gastronomico, mentre in altre location rimane un’anima storica e commerciale molto tangibile che invece di espellere le altre le ha inglobate in un insieme armonico. Di conseguenza i mercati sono stati ridisegnati senza cedere a una rigida formalizzazione, permettendo ad ognuno di avere insegne e offerte diverse, di portare la propria identità senza appiattire l’offerta.
  4. Infine è notevole come i mercati di Madrid abbiano saputo accogliere cucine internazionali senza limitazioni geografiche. Da noi i chioschi o i commercianti che propongono cucina straniera si riducono spesso a corner compassati di cibo giapponese. È una mancanza che si percepisce perché l’offerta non si arricchisce con una pluralità di culture gastronomiche che invece si sposano bene con il concetto stesso di mercato.

Concludendo, mi sembra che questi principi sarebbero applicabili in modo felice anche in Italia dove il modello del mercato gastronomico che insiste su quello storico stenta a decollare. L’esempio di Mercato Centrale nelle varie città, pur essendo un caso complessivamente riuscito, assomiglia al mercato di San Miguel, molto meno a un mercato rionale anche perché non è un mercato storico. Accanto a questi modelli, i mercati locali (parlo in particolare di Roma) sono in sofferenza salvo qualche eccezione e non riescono a rimodellarsi con un’offerta avvincente e contemporanea, che spazi dal negozio vintage, all’enoteca, alla ristorazione gourmet senza perdere pezzi di identità e di pubblico.