Vietare l’espressione “polpetta di soia” è sbagliato, ridicolo, e pure inutile per gli allevatori

Il nuovo divieto divieto sul meat sounding, già votato in Parlamento europeo, entra addirittura in conflitto con la lingua. D'altronde, cos'è una polpetta?

Vietare l’espressione “polpetta di soia” è sbagliato, ridicolo, e pure inutile per gli allevatori

L’Unione ci aveva già provato una volta a riservare nomi come “salsiccia”, “bistecca” e “burger” esclusivamente a preparazioni a base di carne animale: ed era andata male. Ora la maggioranza è cambiata, l’idea è tornata: e ha avuto una prima approvazione dal Parlamento, anche se il percorso prima che il divieto diventi operativo è ancora lungo.

Il divieto di usare termini come “würstel di soia” o “hamburger vegetale” è sbagliato da un punto di vista linguistico, innanzitutto. Perché cade sulla fondamentale distinzione tra materia prima e preparazione, tra ingrediente e ricetta, tra natura e cultura. La materia prima non ammette estensioni: nessuno si sognerebbe mai di dire “coscia di soia”, “spalla di tofu” o “trippa di spinaci”: sono parti di animali, anatomia pura, e loro appannaggio restano. Sarebbe come dire “maiale di zucchine” o “carne di verdura”. Ma qui stiamo parlando di ricette, di manipolazioni umane dove il processo influisce pesantemente sul risultato finale: affettare tritare insaccare stagionare, tanto che tipicamente i bambini urbanizzati non sanno che la fettina di salame proviene da un cugino di Peppa Pig, e quando lo apprendono è uno choc. 

Hamburger è un modo di preparare il cibo, tanto che può esserci hamburger di vitello come di manzo come di bufalo, o di carni miste, o di carni bianche, o addirittura di tonno. Una cosa però bisogna dirla: stiamo parlando sempre di animali, e in questo anche i vocabolari danno un’indicazione abbastanza chiara. Ai termini “salsiccia” e “hamburger” associano inequivocabilmente una preparazione a base di carne. Anche a “polpetta” se è per questo, però subito dopo aggiungono che per estensione il termine è passato a designare qualsiasi pietanza sia preparata con lo stesso metodo. Ed è proprio qui che casca l’asino (col quale ahimè si fa un ottimo ragù – ma ragù di soia si potrà dire?) perché le lingue si evolvono, e chi potrà impedire per legge che certe espressioni entrino nell’uso? Com’è successo a polpetta, succederà, sta già succedendo, a burger e bistecca. 

Perché vietare l’espressione “hamburger vegetale” non ha senso

hamburger di melanzane ricetta

Vietare termini come hamburger vegetale è ridicolo da un punto di vista politico, se prendiamo per buone le intenzioni dei promotori della norma, e delle tante voci che hanno applaudito all’iniziativa. François Guihard, il capo di Interbev, l’associazione francese di allevatori e trasformatori della carne, ha dichiarato al Guardian: “Senza avvertimenti chiari, i consumatori rischiano di essere ingannato da prodotti che sono travestiti da carne, ma che non sono carne”. (La Francia, vale ricordarlo, è l’unico paese che ha già previsto una norma nazionale in tal senso, norma che però è stata castigata dalla Corte di giustizia europea nel 2024).

Dall’altro lato, lo stesso Manfred Weber, capogruppo del Partito Popolare Europeo, che ha portato avanti l’iniziativa, ha dichiarato che in effetti ci sarebbero problemi più pressanti e che comunque “i consumatori non sono stupidi quando vanno al supermercato e acquistano i prodotti che gli servono”.

Insomma diciamocela tutta: riesce difficile immaginare qualcuno che compri per sbaglio un hamburger vegetale mentre lo voleva di carne. Più facile che capiti il contrario, forse: i veri consumatori meno tutelati restano sempre i vegetariani e ancora peggio i vegani – disclaimer: lo dico da onnivoro praticante, benché moderato – che devono fare lo slalom tra scaffali e menu, che devono portarsi da casa la lente d’ingrandimento per leggere papielli in corpo 8 scorrendo per interminabili minuti liste degli ingredienti che sembrano tutti vegetali per piazzarti al penultimo rigo un latte in polvere o una proteina dell’uovo.

Gli scaffali dei supermercati sono organizzati in maniera molto chiara – al fine di tutelare sia i vegetariani che i carnivori – per cui il banco macelleria e i frighi con le bistecche stanno da tutt’altra parte rispetto ai succedanei vegetali, di vecchia come di nuova generazione. Immaginare che ci vogliano ingannare rifilandoci un burger vegetale al posto di uno “vero”, anche dati i costi, è come aver paura di comprare per sbaglio prodotti a base di insetti: semplicemente, non ci capiterà mai.

Smettere di scrivere “würstel di soia” aiuterà gli allevatori?

würstel di soia

Infine, e soprattutto, vietare denominazioni come “würstel di soia” è inutile da un punto di vista pratico. Anche se ammettiamo – perché è vero – che il fine ultimo della legge sia quello di proteggere non tanto i consumatori ma i venditori, cioè l’industria della carne. Thomas Waitz, eurodeputato austriaco dei Verdi, l’ha detto a chiare lettere: “Questa tattica è un diversivo e una patetica cortina fumogena. Nessun agricoltore guadagnerà di più né si assicurerà un futuro con questo divieto”.

Perché? Partiamo dall’argomento principe proprio dei promotori della normativa: “C’è bisogno di trasparenza e chiarezza per i consumatori e di riconoscimento per il lavoro dei nostri agricoltori”, ha dichiarato la prima firmataria della proposta, Céline Imart, che oltre a essere eurodeputata è proprietaria di una grossa azienda agricola ereditata dalla famiglia. E ha aggiunto che bisogna farlo con la carne proprio come si fa già con il latte e lo yogurt. Infatti il termine “latte” è riservato solo ai prodotti di origine animale, con l’unica eccezione delle denominazioni tradizionali, come latte di mandorla. 

Bene: vi risulta che questo abbia fermato l’avanzata, in termini di vendite e di notorietà, del latte pardon bevanda a base di soia, e simili? Manco per niente. E così pure per l’uso del termine, oltre che per il consumo del prodotto in sé: tant’è che tutti quotidianamente usiamo l’espressione “latte di avena” quando andiamo al bar e chiediamo un cappuccino veg, né il cliente si fa problemi a dirlo né il barista fa una piega a capirlo. Anzi direi di più: secondo me conta talmente di più l’immagine che c’è sulle confezioni, rispetto alla scritta stampata, che questa cosa del divieto dell’espressione “latte vegetale” le persone normali – esclusi quindi i gastrofissati come noi – manco la sanno. 

Il tutto finirà, se mai avrà avuto inizio, quando tra qualche anno i termini “hamburger vegetale” e “latte di riso” saranno talmente diffusi da costituire una nuova “tradizione” (perché anche le tradizioni come le lingue sono in continua evoluzione), e la legislazione non dovrà fare altro che prenderne atto.