Buropazzia: Volevo solo aprire un ristorante

Buropazzia: Volevo solo aprire un ristorante

Delle tante cose che non ti insegnano a Masterchef c’è che tra mutui, permessi, tasse, canne fumarie, dipendenti e uffici pubblici, aprire un ristorante oggi in Italia è da incoscienti. Eppure, quante volte sentiamo dire: «Il mio sogno è aprire un ristorante»?

Pfff, ingenui che non siete altro: anche se aveste trovato soldi a sufficienza per partire, steso un business plan bocconiano e ideato una formula di ristorazione vincente, il vero incubo che i neoristoratori sottovalutano si chiama: burocrazia.

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Fabio e Giorgio sono due giovani (hanno 29 e 35 anni, suvvia…) neoristoratori che hanno affidato il loro sfogo al Fatto Quotidiano convinti forse di avere uno scoop: aprire un ristorante in Italia è complicato.

Bella novità!

[Certo, un’indagine penale per falso a causa di due casse da stereo non segnalate come impianto acustico, non è mica male]

Aprire un ristorante è una guerra di trincea.

E non mi riferisco alla quotidiana lotta con clienti, concorrenti, Tripadvisor, ma al fuoco amico di burocrazia, corsi assurdi da frequentare, dipendenti, permessi, balzelli vari che caratterizzano la vita eroica di ogni piccolo imprenditore nel nostro Paese.

[Piccolo inciso personale: è anche per questo motivo che, quando mi capita, giudico molto diversamente il lavoro di uno chef-imprenditore, da quello di uno chef-dipendente. Stesso lavoro, ma due mondi diversi. Se sei della prima specie e sei bravo, allora sei davvero un fuoriclasse.]

Ma torniamo a Fabio e Giorgio. Leggere la storia non originale né notiziabile di questi giovani cresciuti bocconiani “con esperienze in multinazionali”, mi ha fatto venire in mente il libro Volevo solo vendere la pizza (Garzanti), del giornalista Luigi Furini. Esilarante e agghiacciante, racconta passo passo le disperate vicissitudini di chi – armato delle più buone e onorevoli intenzioni – vuole aprire una pizzeria d’asporto e si ritrova nella giungla spietata e politicamente scorretta della burocrazia italiana.

La trafila è cosa nota.

— Prima servono i soldi e si, questo lo sanno anche i bambini, in banca te li danno solo se ne hai già (anche sotto forma di immobili o di vecchie zie benestanti) a tutela del credito.

— Poi serve un locale che – naturalmente – deve essere conforme. Cosa sia esattamente la canna fumaria, non ve lo so spiegare con precisione, escludo si tratti di uno stupefacente anche se ha mandato nel pallone più di un amico nella disperata ricerca di un locale adatto ad aprire un’attività di ristorazione.

— Poi, una volta trovati i soldi e trovato il locale, inizia il tunnel degli orrori, la Mistery Box delle sfighe: quello di permessi, licenze, corsi per responsabili della sicurezza, e sigle come Haccp, ASL, CCIAA e centinaia di euro spese in marche da bollo.

Mettiamo anche il caso che siate di quelli di bravi con i moduli e di quelli che in un pubblico ufficio riescono a mantenere la calma. Mettiamo anche che siete riusciti – finalmente – ad aprire il vostro ristorante.

Il bello deve ancora venire.

La vostra neoassunta cameriera vi comunicherà di essere in gravidanza a rischio, e il lavapiatti vi denuncerà per inadempienze contrattuali. La finanza verrà a farvi visita con cadenze regolari, e probabilmente qualche cliente vi chiederà un risarcimento danni per essere inciampato su un gradino non segnalato. Volevate la prova in esterna, no?

E sicuramente ho dimenticato qualcosa [per esempio il ristoratore premiato e multato per la stessa ragione, il calciobalilla, l’ammenda da 5000 euro per due pezzi di pizza serviti al tavolino esterno, i 5.300 euro di multa per aver tenuto 4 iPad nel locale.]

Bene, ora chiedo a voi che pensate che la cosa peggiore che possa capitarvi sia di finire al pressure test: avete davvero voglia di aprire un ristorante?

[Crediti | Link: Il fatto Quotidiano, Dissapore, Il giornale]