Scrivere che il Casadonna di Niko Romito è solo un ristorante significa limitarsi alla verità più sinceramente bugiarda

Nella storia del ristorante di Niko Romito non sono mancati momenti di rottura, del resto se ti prendi la briga di rivoluzionare la cucina abruzzese — ma scrivere “abruzzese” significa limitarsi alla verità più sinceramente bugiarda — lo devi mettere in conto. Diciamo che detesta la monotonia. Però, se qualcuno gli avesse chiesto di immaginare il suo ristorante ideale lo avrebbe voluto proprio come il Reale a Casadonna, che ha appena aperto a Castel di Sangro.

Una striscia d’asfalto nero s’inerpica fino al cancello originale di un convento fondato nel ‘500, ma oggi la targa color ruggine scandisce chiaramente Casadonna, la località che definisce i 6 verdeggianti ettari proprietà esclusiva di Niko Romito e sua sorella Cristiana. Li hanno strappati a un facoltoso americano volando precipitosamente a Chicago per apporre la firma sul contratto, e oggi, con vent’anni di debiti e 15 mesi di lavori sul groppone, la visione si scopre passo passo, fin dal breccino bianco che sale dal parcheggio culminando in 2.400 metriquadri coperti che dal giorno dell’apertura, vincendo la stanchezza di un estate senza ferie, mostrano con orgoglio a tutti gli ospiti.

Nuda, l’estesa sala rettangolare con gli stessi coperti del Reale di Rivisondoli, precedente incarnazione del ristorante di Niko Romito, ricorda un refettorio. La integra una veranda con copertura trasparente progettata per estendersi in caso di ricevimenti. Salendo una scala, voluttà e vertigine, si arriva nella bellissima sala da the, accanto sei raccolte stanze e poi di nuovo giù con i 170 metri quadri di acciai Angelo Po e, a pochi passi, le dieci postazioni della scuola di formazione pronte a ricevere giovani apprendisti. Niko Romito non vuole usare il cibo solo per saziare e compiacere ma anche per incuriosire e insegnare.

Nell’austerità di questa architettura la cucina rigorosa ed essenziale del Reale ha trovato la sua quinta naturale. Pareti intonacate di bianco assoluto, resine o pietra da calpestare, illuminazione minima, grandi spazi e lunghi silenzi. Riutilizzo di materie povere e antiche, ferro arrugginito e tavole di legno, grandi aperture affinché la magia della montagna entri a dialogare, accompagnando fino ai tavoli.

Poi mi siedo, mi porgono la carta e… torno a Rivisondoli.

I menù insieme alle sedie sono le sole cose recuperate: “volevo ribadire la continuità, per cui abbiamo aperto con i piatti proposti negli ultimi anni al Reale, ma dal prossimo mese inizia il dialogo con questo posto splendido, con l’orto, il frutteto, le vigne sperimentali, le api nelle arnie. Soprattutto con i ragazzi che verranno qui a studiare e che da subito — questa è la vera rivoluzione — entreranno nel campo di battaglia, la vera cucina di un ristorante”.

Romito ha fatto lo stesso giro e detto le stesse cose un numero spropositato di volte nelle ultime settimane, verso le montagne di Casadonna si è compiuto un vero pellegrinaggio di giornalisti, foodwriter, blogger e gastrofanatici. Eppure non si sottrae e, vincendo la naturale ritrosia, parla, racconta e sembra ancora stupirsi, come quando accarezza la pietra della mangiatoia, seducente attrazione di una cantina da 6000 etichette, e sospira ricordando che appena poche settimane fa, le sale del suo ristorante erano di poco più grandi.

Capisco che il rovescio della medaglia di tanta bellezza, e parliamoci chiaro, di tanti investimenti, sia il rischio che la storia di Niko Romito si trasformi in una versione culinaria del Mago di Oz, rivelando che dietro i fornelli, in fondo, non c’è uno stregone. Per questo, quando era il mio turno, ho resistito alla tentazione di chiedere: perché?

[Crediti | Link: dissapore, immagini: Giampiero Prozzo]