Il Green Deal finanzia l’industria che dovrebbe smantellare: il documentario Food for Profit svela l’ipocrisia UE

Il documentario Food for profit è shockante e non solo per le immagini che mostra sugli allevamenti intensivi: cosa ci dice sul Green new deal europeo e su ciò che esso finanzia.

Il Green Deal finanzia l’industria che dovrebbe smantellare: il documentario Food for Profit svela l’ipocrisia UE

Il documentario Food for profit di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi arriva, per una curiosa coincidenza, proprio nel momento giusto: il momento in cui l’Unione Europea, sotto la pressione del movimento dei trattori, promette di allargare l’accessibilità ai finanziamenti europei, includendo anche le industrie alimentari che non rientrano propriamente nei parametri di un’agricoltura verde e sostenibile, e di rendere meno severi i controlli per verificare il rispetto di quei parametri stessi. Arriva come una mazzata, Food for profit, e ci sbatte in faccia una realtà di segno opposto: già così il Green new deal europeo è troppo debole e inefficace per proteggere la nostra salute e l’ambiente, già ora l’Ue finanzia gli allevamenti intensivi che dovrebbe smantellare.

Il documentario, che vede la giornalista italiana mettersi in gioco in prima persona, riesce a muoversi su due livelli, entrambi scioccanti: mostra gli orrori degli allevamenti intensivi industriali, con immagini ottenute dalla collaborazione con attivisti che lavorano sotto copertura; e poi entra nei palazzi di Bruxelles, mettendo i politici davanti alle loro contraddizioni e alla loro ipocrisia. Perché questi orrori vengono perpetrati non solo a dispetto della legislazione europea e la Politica agricola comunitaria (PAC), ma proprio grazie ad essa.

Le immagini che scorrono sono forti, ma non sono una galleria degli orrori fine a sé stessa, o con il malcelato scopo di farci diventare tutti vegetariani convinti o peggio attivisti vegani. Perché uno poi, a volerla mettere giù brutale, potrebbe pure fregarsene delle sofferenze animali (anche se, guardate e poi ne riparliamo), potrebbe pure pensarla come Clara Aguilera, l’eurodeputata della Commissione agricoltura che, registrata da una telecamera nascosta, dice “Non mi interessa della felicità del pollo del coniglio o del gatto… io me li mangio”.

I problemi degli allevamenti intensivi

Il punto è che il modello industriale di allevamento intensivo – che poi rappresenta il 95% della produzione mondiale, ricorda lo scrittore Jonathan Safran Foer: l’immagine della vecchia fattoria è anacronistica e residuale – ha tali e tante conseguenze disastrose, che solo metterle in fila fa paura. Come dice Innocenzi verso la fine del film: “Sfruttamento dei lavoratori, antibiotico-resistenza, comunità distrutte, emissioni di gas serra, perdita di biodiversità, danni ambientali”. Per non parlare dei rischi per la salute, individuali e specifici così come collettivi e generici: vale a dire, il pericolo sta sia nel mangiare animali imbottiti di medicine e allevati nella sporcizia o macellati quando sono già morti di stenti, sia nello sviluppare le condizioni perfette per innescare la prossima pandemia (e questo nel documentario lo dice David Quammen, quello di Spillover, il quale a un certo punto ricorda anche come migliaia di persone muoiano ogni anno per infezioni che gli antibiotici non riescono a curare, e il motivo per cui gli antibiotici sono meno efficaci è che il loro abuso ha portato allo sviluppo di batteri super resistenti).

Polli ammazzati a bastonate perché sono “scarti”, cioè non stanno crescendo abbastanza per gli standard di convenienza; maiali spostati con la pistola elettrica, maiali che diventano pazzi e iniziano a mordersi e mangiarsi a vicenda; mucche allevate in stalle che vengono pulite una volta all’anno invece che tutti i giorni, mucche con le mammelle enormi per la mastite, mucche drogate di medicine illegali non per curare malattie ma per prevenirle; tacchini ammassati in gabbie per il trasporto, schiacciati e buttati come oggetti, sani feriti e morti. Sono solo alcuni degli orrori che si vedono grazie agli attivisti infiltrati, e che accomunano gli allevamenti di tutta Europa: Italia come Spagna, Polonia come Germania. 

E poi ci sono, come si diceva, gli effetti collaterali: sversamenti nei fiumi e nei laghi che uccidono i pesci; abbandono di inquinanti che contaminano le falde e quindi l’acqua potabile; sfruttamento di lavoratori stranieri pagati in nero e licenziati al primo giorno di malattia. Tutto per risparmiare, tutto per guadagnare.

Le lobby di Bruxelles e il maiale a sei zampe

Ma i veri orrori si vedono in Belgio, a Bruxelles: non nelle stalle maleodoranti ma nelle linde stanze del potere. E paradossalmente molte cose sono perfettamente legali: è perfettamente legale il conflitto di interessi, per cui molti membri della commissione agricoltura lavorano per le industrie agroalimentari che dovrebbero controllare, o addirittura sono essi stessi proprietari terrieri – basta che lo dichiarino, che non lo tengano nascosto. 

È perfettamente legale organizzare degli incontri alla luce del sole, tra scienziati, politici e giornalisti, allo scopo di costruire casse di risonanza, le cosiddette echo chambers volte a diffondere delle idee e a contrastarne altre (per questo abbiamo sempre l’impressione che per ogni inchiesta del genere ce ne sia una di segno uguale e contrario, fino ad arrivare agli “studi” che negano il cambiamento climatico).

È perfettamente legale far finire i soldi dell’Unione Europea – i nostri soldi, con un’espressione non meno vera che retorica – a finanziare i modelli di allevamento che il Green new della stessa Ue vuole disincentivare. Com’è possibile? In vari modi: per esempio, se un’azienda non può  prendere sovvenzioni per i suoi allevamenti, li può però prendere per l’agricoltura; peccato che le sue coltivazioni servano precisamente a produrre mangime per gli animali allevati nei vicini capannoni. 

È perfettamente legale l’attività di lobbying, cioè tentare di influenzare le decisioni politiche portando avanti esigenze di una categoria o gruppo ristretto: peccato che questo favorisca sempre e solo chi ha più soldi. C’è un momento nel documentario che è molto indicativo di un certo modo di ragionare e procedere: Innocenzi incalza un pezzo grosso con immagini e dati, lui risponde mi dia il suo biglietto da visita. Lei dice che non ce l’ha e allora lui si rifiuta di parlare “perché io non so chi lei rappresenta”. Al di là del fatto che era una bella scusa per sfuggire a domande scomode, io credo che ci sia un fondo di sincerità ancora più terribile in questa frase: è l’idea che se sei un lobbista, se rappresenti gli interessi di qualcuno hai diritto di essere ascoltato, se sei un giornalista o un cittadino e quindi rappresenti gli interessi di tutti, no.

Allora un collaboratore del documentario si è finto lobbista e si è infilato nelle riunioni, arrivando a parlare con potenti europarlamentari come l’ex ministro Paolo De Castro e altri esponenti molto sensibili alle esigenze dell’industria. E per farla proprio grossa, presenta progetti inventatissimi ed estremi: come il maiale a sei zampe per fare più prosciutti, o la mucca con due uteri per raddoppiare le gravidanze. Le reazioni a queste mostruosità non sono per nulla sbalordite, e anzi possibiliste, al limite preoccupate di un’opinione pubblica non sufficientemente matura. Le suddette sono esagerazioni paradossali e infondate, ma altre modifiche genetiche sono tristemente reali: come la razza bovina blu belga, che sviluppa un doppio strato di muscolatura e fa sembrare i vitelli come dei culturisti sotto steroidi; o i polli senza piume, già “prodotti” in Cina, belli pronti per essere infilati in forno senza quelle robe antipatiche e costose da togliere. 

Food for Profit si conclude nei giorni di fine 2020 in cui veniva approvata la nuova PAC, il piano quadriennale che già all’epoca avevamo avuto facile gioco a definire un pacco per l’ambiente. Il documentario ha una distribuzione indipendente: chiunque, sala o privato, può contattare i produttori dal sito per organizzare proiezioni. E un elenco di posti dove è già possibile vederlo è già pubblicato all’interno del sito stesso. Un elenco che vorremmo vedere ancora più fitto, perché l’unica speranza è quella di convincere/costringere le istituzioni a mettere in campo politiche verdi per davvero, e non solo nel nome.