Codogno un anno dopo visto da Brewfist, il birrificio artigianale simbolo della pandemia

Codogno "un anno dopo" ve lo raccontiamo attraverso il birrificio artigianale Brewfist e il suo percorso di resistenza dalla prima zona rossa d'Italia ad oggi.

Codogno un anno dopo visto da Brewfist, il birrificio artigianale simbolo della pandemia

Era il 21 febbraio 2020, esattamente un anno fa, e gli occhi di tutti gli italiani guardavano a Codogno: in poche ore il mondo intero avrebbe guardato alla cittadina del Basso Lodigiano che ospitava il cosiddetto “paziente 1”. Il primo connazionale colpito dal Covid-19, in una cittadina del Basso Logidiano che noialtri del mondo gastronomico conoscevamo già bene per per Brewfist, birrificio artigianale nonché affermata realtà imprenditoriale della zona.

Se rimandate la mente ai giorni precedenti quel 21 febbraio, ricordate giornate pronte ad aprirsi alla luce di una primavera precoce (chi l’avrebbe detto mai, che presto ci saremmo chiusi tutti in casa col sole splendente), le grasse risate per la bagarre tra Bugo-Morgan a Sanremo, come fosse ieri, e i due coniugi cinesi allo Spallanzani di Roma, ai quali non venne data poi tanta rilevanza: quella notizia ci parve così distante da noi, che ci consideravamo ingenuamente immuni, mentre Codogno si preparava a diventare la prima “zona rossa” d’Italia.

Ero in ufficio quel venerdì. Una giornata a orario ridotto a sette ore; ero già mentalmente predisposto ad aggredire il bancone del Terminal 1, il brewpub di Brewfist, quando lessi poco prima di pranzo le prime agenzie rilanciate dai principali quotidiani online.

La sera successiva in tutti i locali fioccavano disdette. Lo ricordo bene: in fondo Piacenza, la mia città, è separata da Codogno solo dal ponte sul Po.

In pochi, pochissimi si resero davvero conto di cosa stava succedendo, di che valzer nefasto ci si apprestava a ballare. Seguirono giorni fatti di insicurezza e paura, i primi morti, i miserabili titoli di giornale per la serie “tranquilli muoiono solo gli anziani quindi tutto sommato lo possiamo tollerare”, o dichiarazioni farneticanti di professionisti del settore come “è solo un’influenza ma un po’ più forte”. E via con Burioni alla riscossa, giornalisti in diretta ogni ora da Vo’ Euganeo e dal Lodigiano, epidemiologi e virologi che fioccavano ovunque manco fossero bagarini. Quelle inquietanti immagini di cestini di cibo passate sul confine di Codogno dai familiari residenti in comuni limitrofi, sotto lo sguardo vigile delle Forze dell’Ordine e delle telecamere.

Si camminava per la strada senza mascherina, ma ci si tirava lo scaldacollo sopra il naso in uno spaventato gesto di protezione quando si incrociava un passante.

In questo clima di incertezza galoppante il governo decise di istituire la prima zona rossa d’Italia, che comprendeva una parte dei comuni del Basso Lodigiano confinanti con Codogno.

Non so voi, ma quella sera del 21 febbraio non la dimenticherò mai. Prima del lockdown nazionale, delle serate scandite dal bollettino dattilografico di Franco Locatelli, prima degli striscioni sui balconi ci fu Codogno, città di grandi snodi ferroviari (sic) e ottima birra artigianale.

Quella di Brewfist, simbolo di un settore in sofferenza da un anno esatto (complici i pub chiusi anzitempo e una filiera estremamente inanellata, quando delicata, oggi debole come non mai), che prima di tutti spense i fermentatori.

Siamo andati a fare due chiacchiere con Andrea Maiocchi, che insieme a Pietro Di Pilato ha fondato nel 2010 il birrificio.

Andrea Maiocchi; Pietro Di Pilato; Brewfist

– Ciao Andrea, come va ora?

“Guarda, vedendo come stanno andando le cose, stiamo cercando di tenere botta sia come birrificio che come locale. Certo, se devo guardarmi indietro, il locale ha retto l’urto decisamente meglio, potendo contare sull’asporto, che a livello di numeri ci ha sorpreso (ma non troppo): abbiamo sempre lavorato in un’ottica di qualità e di fidelizzazione del cliente, e questo a lungo andare lo sai che ripaga sempre.

Il birrificio ha accusato di più, ed è comprensibile considerando tutte le mancate vendite derivanti dal lockdown e delle successive restrizioni imposte dalle zone a colori”

– Torniamo un attimo indietro, all’inizio. Al giorno 0 (o al paziente 1)

“Ricordo benissimo, erano le 5.30 del mattino del 21 Febbraio, e lo venni a sapere da mia madre che è vicina di casa della famiglia del paziente 1, Mattia. Saremmo dovuti andare in montagna quel weekend ma naturalmente annullammo tutto. Quello stesso giorno ho chiamato i nostri dipendenti per chiedere loro se se la sentissero di venire a lavorare ugualmente. Tutti dissero sì, nonostante il comprensibile momento di smarrimento. Ed è da quel pomeriggio che, come ben sai, la situazione è precipitata.

Alle 14.30 sono arrivati i vigili a disporre la chiusura, e noi alle 15 abbiamo apposto alle porte un cartello con scritto che avremmo riaperto il lunedì successivo. Cartello che, naturalmente, nell’arco di qualche ora avremmo tolto.  Il locale è poi rimasto chiuso, veniva controllato da me e da Pietro solo per verificare che i frigoriferi fossero ancora funzionanti.”

– La prima zona rossa d’Italia. E voi nel mezzo. Come avete reagito?

“Era un periodo di grosso fermento. L’azienda macinava grandi numeri, ma l’arrivo del Covid-19 ha cambiato tutto. I dipendenti erano ovviamente erano spaventati e preoccupati per il futuro: abbiamo richiesto la cassa integrazione e come previsto dal decreto liquidità abbiamo fatto domanda ed ottenuto in tempi brevissimi un prestito sul lungo periodo, che ci ha consentito di lavorare dall’estate in poi.”

– C’è qualcosa che ricordi comunque in modo particolare?

“Sì, quando consegnavamo le birre ai check point disseminati sul perimetro della zona rossa, una situazione surreale.

Ricordo benissimo, con un misto di commozione e gratitudine, quando il Birrificio La Buttiga di Piacenza ci venne in aiuto. Noi eravamo la prima zona rossa d’Italia e la nostra dirimpettaia Piacenza non era ancora stata violentata da tutto questo. I colleghi de La Buttiga venivano ai confini della zona rossa con il loro furgone (noi non potevamo certo uscire dal nostro confine) e si caricavano le nostre birre per consegnarle a Milano e dintorni per conto nostro. Questo mi è rimasto nel cuore.”

– Zona Rossa non solo sulla cartina , ma anche in bottiglia. Come è nata questa birra?

Zona rossa Brewfist

“Guarda, è stato un atto di debolezza, la birra che non avremmo mai voluto fare. Nonostante sia una birra facile da bere e da vendere, avevano già in gamma un prodotto simile, la Caterpillar: ci sembrava ridondante, ma dopo un paio di settimane dall’inizio dell’emergenza Pietro, il mio socio, disse che con quello che gli era rimasto in magazzino era arrivato il momento di produrre la Zona Rossa, una “resiliency pale ale” a bassa gradazione alcolica.

D’altronde, mi disse, se non la facciamo noi una birra così, che siamo stati davvero nella prima zona rossa, allora chi dovrebbe farla?

Tra poco uscirà anche in lattina con una nuova grafica, con un rider in etichetta a voler testimoniare la genesi di questo prodotto nel contesto storico e sociale che abbiamo vissuto.”

– Com’è stato il rapporto con le istituzioni e le autorità locali?

“Direi ottimo, sia con la polizia municipale che con la Asl.

Ci siamo trovati a confrontarci con loro, ma siamo sempre risultati perfettamente in regola e a norma anche; abbiamo puntato tantissimo sulla formazione del nostro personale. Ad ogni controllo abbiamo sempre consegnato tutto già pronto, in ordine e compilato correttamente, e anche se non sembra questo predispone già bene chi si ha di fronte.”.

– Parliamo di numeri a un anno dall’inizio della pandemia

“In quanto a forza lavoro siamo riusciti a mantenere la squadra pressoché intatta, nel senso che ad oggi impieghiamo tra pub e birrificio 23 persone a fronte delle 25 in forza prima dello scoppio della pandemia, con questi due collaboratori in meno che, tengo a dirlo, hanno scelto autonomamente di prendere altre strade lavorative.

Per quanto riguarda la produzione, in termini di litri abbiamo avuto sicuramente un calo, ma non impattante come quello sul fatturato: in birrificio ci siamo concentrati nella pianificazione sul lungo periodo delle birre invecchiate del progetto Barrel Aged , che ci ha consentito quindi di produrre ma allo stesso tempo di “immobilizzare” un prodotto che potrà tranquillamente essere venduto nei mesi a venire senza intaccarne la qualità. Quanto alle birre che ci hanno fatto conoscere, ovvero le luppolate, birre che fanno della freschezza il loro punto di forza, c’è stata inevitabilmente una flessione importante.

Sul fatturato mi sento di scindere i dati, nel senso che il birrificio ha subito un crollo di almeno il 50%, ma a livello aziendale il brewpub ha compensato le perdite della produzione, e siamo arrivati a circa un – 28% di fatturato nella globalità.”

– Come vedi che evolverà lo scenario nei prossimi mesi?

“Devo ammetterlo, sul “fronte birrificio” sono molto preoccupato: non so se hai notato, ma il nostro segmento di mercato rischia di non essere riconosciuto non solo in termine di ristori, quanto alla possibilità di poter tornare ad una attività lavorativa continuativa e regolare.

Riscontriamo un certo menefreghismo delle istituzioni nei confronti di tutti gli attori della filiera agroalimentare, e ancora di più in questo momento, dove il nuovo governo Draghi rischia di “dimenticarsi” di noi di fronte ad altre priorità (su Dissapore lo facevamo notare giusto ieri, ndr.) Il nuovo Govero, però, non si trova più di fronte a una sorpresa, ad un anno dall’inizio ci aspettiamo che venga elaborato un piano economico serio e sul lungo periodo.

Temo però che la riga si potrà tirare a fine 2021, e speriamo di non perdere per strada troppi colleghi.”