Alessandro Borghese e gli altri chef fanno bene a parlare di lavoro?

A margine dell'ultimo intervento di Alessandro Borghese, siamo proprio sicuri che gli chef e gli imprenditori facciano bene a parlare di lavoro e di carenza di personale? Proviamo ad andare alla radice di una strategia di recruiting inspiegabile a cui sopravvivono solo i martiri.

Alessandro Borghese e gli altri chef fanno bene a parlare di lavoro?

Tra il 2020 e il 2022 i ristoranti ne hanno viste di ogni: non credo ci sia stato un momento storico dai tempi dei primi MasterChef in cui l’attenzione era tanto puntata su sala e cucina. Manca il personale, mancano i soldi, mancano i clienti, mancano i dehors, mancano i metri, le mascherine, i ristori. Una prova del fuoco per dipendenti, imprenditori e chef messi a dura prova da un periodo difficile e saturo di stravolgimenti. Ma come hanno reagito tanti cuochi ai temi caldi che li hanno coinvolti? Sono giorni che me lo domando: talvolta mi rispondo “straparlando”, con evidente accezione negativa, talvolta mi dico “prendendo posizione” con accezione neutra. Gli episodi mediatici che hanno scatenato la bufera sul tema della mancanza di personale ormai non si contano più. In ultima battuta c’è l’intervento di Alessandro Borghese che in un’intervista ha detto più o meno che “lavorare non significa per forza essere pagati”.

Prima di lui c’è stato il caso di Artur Martinez che ha dichiaratoNon credo che si raggiunga l’eccellenza lavorando otto ore al giorno” esaltando la cultura dello sforzo. C’era Vissani abituatissimo alla polemica, che ha constatato nel 2020 che non si trovava più personale per colpa del reddito di cittadinanza e che dobbiamo educare “i nostri ragazzi al lavoro, al sacrificio, devono sporcarsi le mani”. Ma anche Briatore che suggeriva agli studenti della Bocconi di aprire pizzeriePerché lavorare per 1.400 euro è inutile”. L’episodio in cui si è espresso Alessandro Borghese è un articolo del Corriere che rappresenta forse il più grande epic-fail di gruppo (fatte salve pochissime eccezioni) che verrà ricordato nella storia della ristorazione per i suoi risvolti drammatici.

È sempre colpa dei giornalisti

Lontana da ogni tentativo di vittimismo, sottolineo che queste bufere mediatiche si generano perché noi giornalisti incalziamo gli imprenditori su temi attualissimi, caldi e molto più necessari dell’ennesima diatriba sulla ricetta della carbonara (converrete che abbiamo fatto qualche passo in avanti, io la vedo così).

Alle domande ci sono imprenditori che rispondono in modi estremamente divisivi e standardizzati (certe volte sembra ci sia un “generatore automatico di lamentele del ristoratore” nascosto da qualche parte), scoprendo il fianco a lacune professionali e posizioni frustrate che moltiplicano la frustrazione e possono trasformarsi in pubblicità negativa, per l’attività e per la persona. Domandare è lecito e rispondere è cortesia, tutto questo fino a quando non si è all’interno di un’intervista o di un dibattito pubblico. Se ad esempio mi chiedessero di parlare di fisica quantistica penso che mi fingerei morta pur di non dire qualcosa, qualsiasi cosa. Lo dico contro i miei stessi interessi: sarà forse il caso qualche volta di mordersi la lingua e pesare le parole come etti di prosciutto?

La peggiore strategia di recruiting possibile

Del resto che non c’è personale è un fatto certo che non riguarda solo l’Italia. Non passa giorno che la mia bacheca non venga inondata da annunci di ricerca camerieri, cuochi, lavapiatti, banchisti. Io che conto come il due di bastoni quando regna coppe ho ricevuto messaggi da compagni delle elementari che mi chiedevano per loro cugino se avessi un cameriere.

Tra le varie fasi del mio lavoro, ci sono stati anche degli approcci al mondo del recruiting, ai colloqui, alla scrittura degli annunci e allo screening dei curricula da cui posso riassumere che questo modo di esporsi pubblicamente sul tema del lavoro non permetterà a nessuno di questi imprenditori di trovare personale. Ma del resto: chi andrebbe a lavorare per uno che parla di sacrificio, sforzo, gavetta, che sparla dei dipendenti ancora prima di averli assunti, che percula i percettori del reddito di cittadinanza, che dice che i cuochi di oggi sono presuntuosi e incapaci? Ditemi, chi?

La libertà di parola e la furbizia

recruiting

Del resto per tenersi un dipendente ci vuole una visione imprenditoriale che non tutti sembrano avere (e questo succede ovunque, anche al di fuori delle cucine). Allo stesso modo anche la ricerca del personale è un settore strategico in cui i nostri ristoratori non stanno dimostrando particolare lungimiranza o furbizia. Ad esempio pubblicando annunci muti, tutti uguali, dove non viene illustrato nessun benefit per il lavoratore assunto, e che quindi non contengono alcun vantaggio competitivo rispetto alla miriade di altri annunci presenti sul mercato. In qualche caso anche frasi fuori luogo e affermazioni border line. Un esempio a caso qui sopra di un post su Linkedin.

Diritto di pensiero e dovere di parola

Con questo non voglio negare il diritto di pensiero a tutti gli imprenditori che stanno vivendo una fase di frustrazione e difficoltà. Anzi io certe volte li ringrazio quando esordiscono in queste frasi, perché la mia lista dei “posti che non ho voglia di visitare” da cliente pagante si allunga enormemente lasciando spazio per quelli che mi sembrano più affini alla mia visione del lavoro, delle relazioni e della felicità, se devo dirla tutta. Come diceva Oscar Wilde? “A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio”. Qui più che sembrare stupidi il rischio vertiginoso è di ritrovarsi ancora più soli, senza personale, sempre più incarogniti. Ragionerei dunque se è proprio il caso di usare il proprio diritto di pensiero trasformandolo in dovere di parola. Piccolo spoiler: forse no.

Tutto il resto

E qui parliamo solo di forma e non di sostanza. In un articolo su Wired Simone Cosimi ha spiegato che le affermazioni di Borghese e quelle di altri non sono confortate da dati e da analisi serie del sistema professionale italiano. “Il mercato del lavoro è un prodotto degli equilibri e degli squilibri sociali, demografici e in definitiva della distribuzione della ricchezza di un paese. Dovrebbe essere un motore di rivoluzione di quei fattori ma, in Italia, ne è spesso solo una fotocopia” scrive il giornalista. Alla fine queste dinamiche sono totalmente no-sense e controproducenti che mi viene quasi il dubbio di dover dare retta a chi dice che “questa retorica del duro lavoro è solo una narrazione di controllo per manipolarci e renderci più sfruttabili”.