Pasti scemi: vi siete mai visti a un apericena?

L'apericena è un misto tra aperitivo e cena che piace molto agli italiani, peccato che non sia né l'uno né l'altro, ma solo un grande affare per baristi e ristoratori

Pasti scemi: vi siete mai visti a un apericena?

Andare fuori a cena? Ma fatemi il piacere. La “cena fuori” non esiste più, la cena è finita, è morta, lo sapete?

A meno che non siate, per disgrazia vostra, impiegati, manager o qualche altra desueta categoria di persone costretta ancora oggi a partecipare alle cosiddette “cene di lavoro”, una grandissima iattura dove si è costretti a ingollare bocconi mentre si parla di business plan e budget trimestrali, per gli altri il rituale della cena fuori –da intendere nel senso di “al ristorante” e non come condizione mentale–  si è praticamente dissolto.

Estinto, evaporato come una bollicina di spumante sorseggiato, o meglio ingurgitato, nel bel mezzo di una moderna nonché trendy “aperi-cena”.

APERICENA.

apericena milano

E già qui, già solo dal  nome, capiamo che siamo nell’era 3.0 del cibo, nella modernità, nell’epoca “gender” applicata alla ristorazione di massa: l’apericena, infatti, non ha un genere definito, può essere maschile o femminile, un misto tra “l’aperitivo” e “la cena”, tra maschi e femmine, per non far torti a nessuno, con buona pace di Vladimir Luxuria e Maurizia Paradiso.

Peccato che l’apericena, non sia né l’ uno, ne’ l’altra.

Non goda cioè né della soave leggerezza di un rito semplice e ormai obsoleto come l’aperitivo, servito con qualche tartina e qualche olivella, e che lascia ampio spazio alla conversazione e al convivio, né della completezza e gratificazione di una vera cena, dove poter degustare con compiaciuta soddisfazione le pietanze ordinate.

L’apericena è infatti  un ibrido insulso che non ha nessuno dei pregi dei suoi padri.

Nel moderno rito tribale dell’apericena, infatti, orde di giovani (e non) con in mano i piattini di plastica d’ordinanza si avventano con classe (poca) ed eleganza  (ancor meno) sui banconi stracolmi di vivande che nemmeno nelle nozze del Padrino parte uno due e tre messi assieme, facendone ampio scempio nonché strati sovrapposti.

apericena milano

Nella frenesia della formula “all you can eat” che nelle patrie terre è osservata alla lettera, l’italiano medio frequentatore di apericene se ne sbatte altamente del conversare o sorseggiare con tranquillità il suo vino da meditazione: ha pagato, di fronte a lui c’è un bancone strabordante di cibi – e non importa quali, anche se fossero avanzi di giorni prima arrivati freschi freschi di gioranta dal freezer – e lui ha un piatto in mano, libero di riempirlo come gli pare e piace, senza limiti, senza ritegno né dignità.

Ed è sufficiente questa illusoria idea di libertà dalle parsimoniose somministrazioni provenienti dalle mani avare del cameriere, questa impressione di poter fregare qualcuno portandogli via ogni sorta di ben di Dio gastronomico a trasformare anche il più corretto tra noi in una bestia primordiale affamata di tartine e bignè. “Tanto, ho pagato”.

Certo, ho pagato.

Peccato che le golose tartine e gli invitanti bignè degli (delle?) apericene (parola macedonia sul cui genere Treccani ha detto la sua), con quella maionese virante al salvia e quel pane molto “croccante”, al pari della pasta leggermente  “all’onda”, pur non essendo un risott , siano in realtà uno specchietto per le allodole.

Un’ astutissima operazione di marketing che fa leva sui nostri istinti atavici di accaparramento del cibo e della prevaricazione del più debole, di colui cioè che è troppo timido per arrivare ad arraffare la tartina più succulenta.

Un modo per spingerci al consumo compulsivo mischiato alla leggera euforia di chi sta facendo un affare, un grosso affare  ai danni del ristoratore –quel marpione– che, nel nostro immaginario, molte altre volte l’ha fatta a noi.

In due parole, la euforizzante sensazione di mangiare alle spalle del gestore, sentendoci un po’ furbetti, un po’ impuniti.

E provate a dire che non è vero.

apericena milano

Peccato che a saperla lunga, ancora una volta, sia il furbo ristoratore, che nel retro, osservando la bolgia infernale di noi allocchi si frega le mani assaporando in beata solitudine il suo (vero) aperitivo. Con due olivette taggiasche e una fettina di salame nostrano.

A noi, invece, la focaccia del giorno prima e le patatine rimestate dal sacchetto rabboccato.

[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Lo Stacco]